Tra ciliegi e social network
- editoriale di Sherwood n. 253, luglio/agosto 2021 -
di Luigi Torreggiani
Come ogni anno, all’inizio della primavera, pedalando per diletto su e giù per l’Appennino Tosco-Emiliano, ho osservato le impressionanti fioriture dei ciliegi che ricoprono intere pendici della fascia pedemontana. Altroché “specie sporadiche”! In quelli che fino a poche decine di anni fa erano campi coltivati, o pascoli, il ciliegio la fa spesso da padrone.
Quest’anno, tuttavia, le colline punteggiate dal bianco delle fioriture non si sono sedimentate in me unicamente come “fatto paesaggistico”, come visione poetica, romantica, d’ispirazione. Hanno assunto il sapore aspro e amaro di una ciliegia non ancora matura.
A causare questo è stato Facebook, o meglio, ciò che su questa piattaforma accade di continuo ormai da mesi. Sceso dalla bicicletta ho infatti aperto il popolare social network e sono stato invaso, come ogni giorno, da immagini e parole di singoli soggetti e gruppi che si dichiarano “a difesa della natura” e in lotta per contrastare “il devastante attacco in atto contro le foreste italiane”.
CONTENUTO PROMOZIONALE
Non condivido nulla di questi post che imperversano giornalmente su Facebook. Non il metodo, forzatamente catastrofista e “acchiappa like”. Non il merito, basato il più delle volte su opinioni senza fondamenti scientifici o su battaglie ideologiche spesso contro il ceduo, visto quasi come la causa di tutti i mali. Non l’uso distorto delle immagini (la foto aerea di un ceduo appena tagliato ed esboscato accompagnata da una frase inorridita ha la stessa potenza social di un bel tramonto sul mare). Non gli sproloqui e gli indici dei “moralizzatori da tastiera” (spesso anche con formazione forestale) puntati contro questa o quella categoria (con i commenti “boscaioli = assassini” come immediata conseguenza).
Ma dato che ritengo utile ragionare su queste linee di pensiero e d’azione, perché incidono direttamente sul settore forestale, ho quindi iniziato a pensare e ripensare a cosa sottendono queste prese di posizione così radicali, oltre alla “percezione distorta” su natura e paesaggio di cui si è già discusso a lungo. Se anche l’orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno... forse anche tra le righe di quei post si può nascondere qualcosa che merita una riflessione. Ecco che ho ripensato alla fioritura dei ciliegi in Appennino e ho sentito l’amaro in bocca. C’è una parola, tra le righe di quei messaggi, della quale non si parla mai abbastanza: selvicoltura.
C’è una parola, tra le righe di quei messaggi, della quale non si parla mai abbastanza: selvicoltura.
In Italia non si investe, tranne rari e lodevoli casi, sulla selvicoltura. Non lo si fa nelle università, dove le esercitazioni sono ridotte all’osso, le prove di martellata rarissime e le esperienze degli stessi professori spesso carenti, perché concentrate in altri campi. Non nella ricerca, dove il termine selvicoltura è quasi sparito dalle keywords delle pubblicazioni scientifiche. Non nella professione, dove non si punta nella formazione post-universitaria in questo campo. Non nelle amministrazioni pubbliche, che poco o nulla fanno per indirizzare e valorizzare i boschi dei propri territori. Non nella politica, assolutamente priva di visione su un territorio, quello forestale, che ormai rappresenta il 40% del Paese.
Le potenzialità dei ciliegi che ho ammirato pedalando non interessano quasi a nessuno. Si fa poco o nulla per indirizzare quei boschi a qualcosa di più interessante, ad esempio, per la produzione di assortimenti di pregio. In numerosi convegni si parla di necessità di investire sulle filiere locali, di limitare l’import dall’estero per la materia prima di cui hanno fame le nostre industrie di trasformazione del legno, ma quasi mai questi discorsi sono accompagnati da riflessioni strategiche, politiche, economiche e sociali sulla selvicoltura e sulla pianificazione forestale.
L’utilizzazione dei boschi è spesso e volentieri lasciata alle imprese boschive che, da imprese, seguono legittimamente le linee del mercato nel solco tracciato dai regolamenti regionali. Oggi la legna da ardere si vende bene: perché investire sul coltivare ciliegi per produrre tronchi che, chissà, potrebbe vendere (spuntando forse un prezzo superiore) un nipote che molto probabilmente non si interesserà di boschi ma di tutt’altro?
Non sarebbe possibile valorizzare meglio di oggi almeno parte dei nostri boschi? La risposta è sì, certo che sarebbe possibile!
Se c’è un “orario” nel quale l’orologio rotto della comunicazione di certi “ambientalisti da tastiera” è esatto, penso sia insito in questa domanda (che però non viene assolutamente posta in questi termini): “non sarebbe possibile valorizzare meglio di oggi almeno parte dei nostri boschi?” La risposta è sì, certo che sarebbe possibile!
Alcuni modi ci sono, altri sono ancora tutti da immaginare e da sperimentare. Negli ultimi anni, attraverso Sherwood e le attività di Compagnia delle Foreste, abbiamo divulgato, ad esempio, le tecniche della matricinatura a gruppi, della selvicoltura d’albero per valorizzare le specie di pregio (come quei ciliegi), dei diradamenti selettivi, del governo misto, dei trattamenti irregolari. Tecniche in grado di valorizzare non solo la produzione legnosa, ma anche altri servizi ecosistemici. Tuttavia pochissimo di tutto ciò è stato applicato diffusamente nella realtà. Abbiamo lanciato campagne per rendere la martellata da parte dei professionisti abilitati obbligatoria per garantire, anche nei cedui, interventi tecnicamente corretti e, laddove possibile, avanzati e innovativi. Ma quasi neppure i diretti interessati l’hanno portata avanti con convinzione.
Sempre su Facebook noto, apprezzo e condivido un forte impegno collettivo di alcuni colleghi nel contrastare le fake news, ma mi rendo conto che non c’è un altrettanto intenso sforzo collegiale nel mettersi in discussione e provare, tutti assieme, a modificare (dove le condizioni lo permettono) lo status quo.
Forse, in risposta a questi attacchi continui, dovremmo passare dalla difesa, dal “catenaccio all’italiana”, all’attacco, alla fantasia. E farlo non solo sul campo, ma soprattutto a livello politico. Perché serve la politica, servono ingenti finanziamenti e piani di medio-lungo periodo per accompagnare parte dei nostri boschi verso nuovi obiettivi, non solo per produrre assortimenti legnosi di pregio, ma anche per valorizzare tanti altri servizi ecosistemici.
La sera stessa, sbollita la rabbia data dai social e passato l’amaro in bocca per quei bellissimi ciliegi non valorizzati e destinati probabilmente a legna da ardere, ho letto sui social network, finalmente, qualcosa di positivo. Per ricostruire Notre Dame, a Parigi, saranno impiegate centinaia di querce locali coltivate nei boschi francesi nei quali da decenni si fa una selvicoltura di qualità. Mi è tornato il sorriso, la speranza, ma solo per un istante. La maggior parte dei commenti sottostanti la notizia erano del tipo: “non si deve abbattere per un’opera dedicata a Dio l’opera stessa di Dio!”.
Passiamo dalla difesa all’attacco, dal catenaccio alla fantasia, puntiamo sulla selvicoltura... ma non dimentichiamoci mai, al tempo stesso, dell’importanza strategica della comunicazione!
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