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Crisi climatica e alberi: meglio fare arboricoltura da legno che "boschetti”!

Crisi climatica e alberi: meglio fare arboricoltura da legno che "boschetti”!
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di Paolo Mori

Partiamo da un presupposto: avere più alberi in salute ci aiuta a sottrarre parte del carbonio di origine fossile che emettiamo in atmosfera. Questo indipendentemente dal fatto che si trovino a crescere in un boschetto o in una piantagione di arboricoltura da legno.

Allora perché scriverne vi domanderete? La risposta è semplice: il risultato e gli effetti sulla mitigazione della crisi climatica non sono gli stessi. Cerchiamo di capire perché, ma non dimentichiamoci da dove siamo partiti e cioè dalla volontà di mitigare la crisi climatica. Quello, in questa serie di considerazioni, è l’obiettivo prioritario.

È bene che sia chiaro a cosa puntiamo prioritariamente, poiché se dalla piantagione e dalla conseguente cura degli alberi messi a dimora, si possono ottenere vari servizi ecosistemici, non tutti potranno essere ottenuti nella massima misura. Alcuni di questi sono infatti generalmente concordanti, come ad esempio la produzione di legno e la sottrazione di CO2 dall’atmosfera, e si possono massimizzare contemporaneamente. Altri invece sono parzialmente discordanti, come il massimo incremento di biodiversità e la massima produzione di legno.

Per questo, quando si progetta e si gestisce una piantagione, è illusorio pensare di ottenere nella massima misura tutti i benefici connessi alla presenza di alberi. È invece di fondamentale importanza avere le idee molto chiare sui benefici prioritari e sulle cure colturali necessarie per ottenerli.

Quando lo scopo è fissare nel legno CO2, rapidamente e per un tempo quanto più lungo possibile, è necessario piantare specie non solo adatte al luogo ma anche in grado di crescere molto rapidamente. Questo se l’unico scopo è bloccare il Carbonio atmosferico negli alberi.

Se però si intende prolungare la fissazione di CO2 anche oltre la vita della pianta, gli alberi devono avere dimensioni e forma adatte a trasformare il fusto in manufatti di lunga durata.

Le specie messe a dimora devono essere richieste da industria e artigiani per la produzione di travi, mobili, infissi, pavimenti e altri prodotti in grado di trattenere per decenni, talvolta per secoli, la CO2 al loro interno.

Risultati di questo genere non si ottengono piantando “boschetti” ad elevate densità (1.000-1.300 piante per ettaro ed oltre). Senza un progetto chiaro e un piano di coltura. Con specie scelte a caso tra quelle impiegabili in zona. Senza un vero e proprio gestore responsabile, ma con cure colturali che, se va bene, sono effettuate da contoterzisti e solo fino a che bastano i soldi. Poi gli alberi sono abbandonati alle “dinamiche naturali” che non sono affatto benevole nei loro confronti. In queste condizioni infatti le dinamiche naturali portano alla mortalità di circa il 70-80% delle piante, non fosse per altre concause generalmente presenti, anche solo per la competizione tra alberi per la luce, per l’acqua e gli elementi nutritivi. I soggetti che sopravviveranno alle “dinamiche naturali” avranno comunque subìto gli effetti della competizione. Sempre che ci riescano, impiegheranno molti anni a recuperare il vigore che avrebbero potuto esprimere con continuità se fosse stato destinato a ciascun soggetto lo spazio adeguato allo sviluppo della propria specie.

Crisi climatica e alberi

Sezione orizzontale di fusto di gelso (morus nigra) cresciuto in una piantagione con soli 8 m² a disposizione il cui accrescimento è crollato drasticamente dopo soli 6-7 anni.

Insomma, il quadro si presenta poco efficiente, anche se l’obiettivo fosse solo quello di fissare CO2 nel legno di alberi da mantenere in un luogo per un tempo indefinito. La grande quantità di alberi che moriranno con la realizzazione di “boschetti” avrà comunque richiesto energia senza raggiungere i risultati a cui si puntava. Si saranno infatti prodotte emissioni per la raccolta del seme, per la produzione in vivaio, per il trasporto, per l’apertura delle buche e le prime irrigazioni di soccorso, in molti casi anche per la produzione di shelter e pacciamatura. Ciascuna pianta ha quindi bisogno di diversi anni per fissare nel proprio legno il Carbonio di origine fossile corrispondente alla CO2 emessa per produrla. Con le alte densità molte piante rischiano di morire prima o poco dopo essere riuscite a raggiungere tale risultato. Poi, una volta morte il loro legno verrà degradato e pian piano il carbonio fissato nel legno tornerà in atmosfera. Ci potremo quindi aspettare effetti di mitigazione solo dalle piante che sopravviveranno, fino a che resteranno in vita.

Inoltre, senza cure colturali finalizzate ad ottenere legname di pregio, la forma e le caratteristiche dei fusti delle piante sopravvissute non sarà adatta a trasformazioni industriali o artigianali, se non casualmente; qualche albero qua e là. Del resto, se si utilizzano aree di enti pubblici sprovvisti di personale adeguato o di privati disinteressati al proprio appezzamento di terreno, non c’è da aspettarsi risultati eccellenti in tema di mitigazione della crisi climatica.

Questo purtroppo è il destino di quasi tutti i “boschetti” che, in questi ultimi 4 o 5 anni, sono stati realizzati da imprese ed enti pubblici, con le migliori intenzioni ma con un po’ di preconcetti. Piantare per produrre legname di pregio, infatti, a molti è sembrato un sacrilegio: mai mescolare l’impulso di “aiutare la Natura” con quello di produrre legno ad uso umano: non sono azioni coerenti e compatibili! Purtroppo, è proprio questa posizione ideologica che ha fatto dimenticare l’obiettivo dichiarato da cui si era partiti: piantare alberi per mitigare la crisi climatica.

Certo qualche beneficio si otterrà anche con i “boschetti”, ma non sarà il meglio che si sarebbe potuto fare.

Cosa completamente differente è piantare poche centinaia di alberi ad ettaro con il fine di produrre legname di pregio (e magari anche un po’ di biomassa!) con imprenditori agricoli interessati a ricavare reddito dai propri terreni. In queste condizioni ci saranno un progetto e un piano di coltura ben precisi. Lo spazio produttivo dedicato ad ogni pianta sarà quello necessario a ciascuna specie per raggiungere il più rapidamente possibile le dimensioni commerciali, accelerando così la fissazione di CO2. La mortalità sarà inferiore al 5%. L’interesse dell’imprenditore sarà quello di gestire la piantagione e lo farà con cura ben oltre i 3-5 anni iniziali, poiché se lavorerà bene otterrà un reddito. Se produrrà assortimenti legnosi destinati a immagazzinare CO2 in manufatti di lunga vita otterrà un reddito più alto. Il successo lo incentiverà a piantare nuovamente, innescando un meccanismo virtuoso indipendente dalle donazioni o dai progetti estemporanei a cui abbiamo assistito in questi anni. Non solo, se il finanziamento della piantagione sarà stato dimensionato correttamente, lontano dagli sprechi attuali, con meno soldi si otterranno più superfici arborate e meglio gestite, poiché l’imprenditore investirà anche del suo per migliorare il proprio reddito e far rendere al meglio la propria superficie produttiva. Infine, aspetto solo apparentemente formale, ci si allontanerà dall’idea sbagliata che conti soprattutto il numero di alberi per passare al concetto di efficienza ed efficacia che ciascuna pianta può esprimere grazie a un buon progetto e adeguate cure colturali.

È necessario allontanarsi dall’idea sbagliata che conti soprattutto il numero di alberi

A ciò si aggiunge che mitigare la crisi climatica con questa strategia permette di ottenere anche altri risultati concordanti: si dà lavoro continuativo a vivaisti e imprenditori agricoli; si offre materia prima a industria e artigianato (e anche alla produzione di energia termica con gli scarti); si ottengono manufatti che soddisfano i bisogni di molte persone. Queste usando legno eviteranno di impiegare materie prime esauribili e più energivore, come acciaio, cemento, ceramica, o fonti energetiche che andrebbero a peggiorare la crisi climatica immettendo in atmosfera nuovo carbonio di origine fossile.

Quindi piantiamo alberi per dare il nostro contributo alla mitigazione del clima, ma facciamolo coinvolgendo tecnici professionisti e imprenditori: spenderemo meglio le risorse finanziarie (anche pubbliche!) e otterremo risultati migliori e più duraturi.

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