Il ruolo dei Dottori Forestali nel Veneto: dalle radici di una preziosa tradizione all’immersione nelle attuali e diversificate responsabilità gestionali

I motivi per i quali i tecnici forestali hanno sempre avuto una funzione importante nel Veneto meritano di essere circostanziati, tanto più in quanto intercettano la funzione dei forestali su scala nazionale e accrescono il patrimonio culturale di tutto il mondo forestale italiano.
L’opera dei tecnici forestali è implicita nella gestione delle foreste, che vanta una tradizione antica e prestigiosa. Sia per l’estensione spaziale, sia per le numerose tipologie di bosco che si dipanano dalle Dolomiti alla Laguna, i soprassuoli arborei del Veneto sono una componente basilare dell’immaginario dei forestali.
Citiamo il Prof. Generoso Patrone che all’apertura del primo Congresso Nazionale di selvicoltura del 1954 (un evento che allora conseguiva risultati tangibili di politica forestale) incitò i forestali d'Italia a sentire l'orgoglio e l'onore di essere i continuatori dell'opera iniziata dalla gloriosa repubblica di Venezia. Non è questo il luogo per accertare se l’entusiasmo verso la memoria forestale della Serenissima corrisponda del tutto alla realtà storica o se costituisca in parte un mito: sarebbe opportuno precisare a quali tempi, episodi e localizzazioni ci si riferisce e tener conto della vasta documentazione esistente, solo in parte adeguatamente studiata. Comunque, anche nel campo forestale il mito è un buon viatico, che impone di operare con qualità e vivacità!
Non sarà dunque ozioso riprendere in mano questa singolare storia, non solo a scopo culturale ma anche per lo stimolo a capire come può essere impostata una politica per boschi e monti. Tra i termini della politica forestale della antica repubblica veneta, sempre concretizzata nel realismo, vanno individuati gli scenari, i valori, le prospettive, le strategie, le persone ed anche la selezione della classe dirigente: un metodo questo del quale farebbero bene a fare uso molti dei documenti denominati di politica forestale e affini, in circolazione al giorno d’oggi; è probabile però che alcuni di questi termini siano di proposito ignorati, come sono sottovalutati certi nodi cruciali.
Non si può omettere poi di evocare il "taglio cadorino”, spesso citato come precursore della selvicoltura su basi naturalistiche. Difatti, in Cadore, i metodi di taglio delle singole piante furono messi a punto dall'esperienza maturata lungo secoli di uso del bosco. Pur connotato dal pragmatismo di chi del bosco viveva, cosciente che ne avrebbero dovuto vivere poi le discendenze, il taglio a scelta richiedeva una perfetta conoscenza del luogo e una sensibilità da autentici selvicoltori.
Nella seconda metà dell’Ottocento ci fu un tecnico forestale che ebbe modo di conoscer bene il Cadore (per inciso, sposò una cadorina), capì il tipo di trattamento del bosco che vi si praticava e lo sostenne a spada tratta verso chi lo voleva soppiantare a favore di scuole che sembravano più raziocinanti. Parliamo di Adolfo Di Bérenger, un personaggio che possiamo eleggere a capostipite dei tecnici forestali veneti e additare ad esempio di scrupolosità nel documentarsi e nell’approfondire, attraverso la personale conoscenza, le tematiche e le specifiche situazioni dei boschi e poi agire di conseguenza. È da sottolineare che se ne prendeva tutte le responsabilità e non temeva le possibili rappresaglie dei tirannelli di turno, che già allora tendevano a interferire sulle modalità e quantità dei tagli nei boschi.
All’epoca nella quale Di Bérenger operava nel Veneto sotto l’amministrazione asburgica, i funzionari forestali si venivano a configurare come categoria: disponiamo di circa un centinaio di nomi e dei loro curricula. Dopo la desiderata annessione al Regno d’Italia, Di Bérenger passava a imprimere il suo carisma alla nuova dirigenza nazionale e i boschi veneti rientravano nell’organizzazione conseguente alla legislazione specifica.
I tecnici forestali furono dunque, fino ad un certo periodo, funzionari pubblici: nel secondo dopoguerra del Novecento, soprattutto Ispettori del Corpo Forestale dello Stato. I benefici effetti nelle sistemazioni montane portarono a far benvolere dal potere politico l’apparato forestale e a riprodurlo, in parte, all’interno della Regione a statuto ordinario costituitasi negli anni Settanta del Novecento. Si noti che il collegamento con la politica era allora garantito dall’indiscussa influenza di personaggi di governo, scaturiti dalla omogeneità e dal peso elettorale del Veneto, che gli antagonisti denominavano con acida ironia (non disgiunta da impotente invidia) la Vandea bianca.
Nel contesto, del quale si è fornita una traccia, i tecnici forestali sono venuti ad articolarsi nel tempo affiancando alla figura dei pubblici dipendenti quella dei liberi professionisti. Precedentemente, questi erano casi rari, anche se non si vuole includere, per certi versi, coloro che operavano in Consorzi forestali, di bonifica, Regole ecc. Con la grande alluvione del 1966 e la massiccia opera di ripristino degli anni successivi, si poté costatare l’utilità di disporre di forze tecniche suppletive a quelle pubbliche.
L’Esame di Stato per l’abilitazione assunse una configurazione sostanziale e determinò una selezione per l’accesso all’Ordine. Una regolamentazione della professione in forma esplicita divenne indispensabile anche in ambito nazionale, per la progressiva immissione di laureati in scienze forestali in aziende private e in strutture pubbliche differenti dal C.F.S. La legge n. 3 del 1976 stabilì definitivamente l’Ordinamento dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali; con essa venne coniato il titolo di Dottore Forestale.
Fu anche con l’apporto di liberi professionisti operanti nel Veneto e di colleghi operanti nel pubblico che già da quel tempo furono fissate in maniera lungimirante le competenze attinenti alla pianificazione, progettazione, direzione lavori e quant’altro ha ad oggetto i boschi e gli ambienti montani. Il riferimento innovativo a tecniche su basi ecologiche trovava un appropriato substrato culturale, scaturito dal corso di laurea impostato dal Prof. Lucio Susmel all’Università degli Studi di Padova.
Il modo con il quale sono esposte tali competenze trova delle ragioni nelle circostanze legislative, istituzionali e politiche del tempo in cui fu formulata la legge. Lo scrivente (la cui iscrizione all’Ordine risale alla primavera del 1975) se ne rese conto di persona, allorquando fu coinvolto (con altri giovani professionisti di belle speranze) per caldeggiare la nuova categoria in procinto di espansione presso alcuni parlamentari che avevano responsabilità di governo o influenza sulle competenti commissioni parlamentari. Contemporaneamente si rassicurava che le nuove idee ecologiche, assorbite nel menzionato corso di laurea di Padova (ma che all’esterno erano una novità), si conciliavano in maniera rassicurante con le tradizioni radicate nel mondo rurale e montanaro e quindi con il substrato politico di tali onorevoli e senatori.
Giova accennare (perché non era affatto scontato) ai motivi della scelta di confluenza definitiva con gli agronomi (già precedentemente riconosciuti) in un unico Ordinamento. Scelta che era stata peraltro anticipata in alcuni Ordini di Agronomi (ad esempio Belluno) che già avevano accolto tecnici forestali, anche stanziati al di fuori della provincia. Vi erano analogie di tipo professionale, il riconoscimento di reciproci vantaggi pragmatici e l’accortezza di evitare una possibile ghettizzazione; ad alcuni propulsori va però riconosciuta anche la perspicacia di imprimere un effetto moltiplicatore a quella che poteva essere una scontata addizione tra due categorie affini.
Tra questi, forse il più lucido tra i forestali nell’intento di spiccare un salto di qualità fu Umberto Bagnaresi, il quale aveva una visione nazionale complessiva e nel contempo era in costante collegamento con il Veneto, a partire da quando aveva iniziato in Comelico la sua attività (e vi rimase affezionato fino alla fine, ricambiato in loco da un grande prestigio).
Secondo questo professore romagnolo, emerso alla cattedra da un’ampia e concreta esperienza professionale, l’Ordinamento doveva esser conseguenza dell’evoluzione in corso e di una visione unitaria dello sviluppo del territorio. Infatti, i problemi agricoli e forestali, pur mantenendo una loro specificità, tendono a confluire in una visione armonica dell’uso corretto delle risorse. Il forestale e l’agronomo avevano già avuto modo di trovarsi uniti in una comune difesa dell’ambiente rurale, minacciato da varie cause di aggressione. Il forestale aveva già inteso che la foresta non si difende solo attraverso i vincoli ma operando all’interno dello sviluppo complessivo della montagna; nello stesso tempo l’agronomo aveva dovuto con sempre maggior frequenza uscire dagli stretti limiti dell’azienda agricola per portarsi su più ampie dimensioni territoriali. Mentre l’agronomo doveva superare la sua caratteristica consueta di tecnico dell’azienda agricola e il forestale quella di conservatore del bosco, entrambi dovevano diventare promotori e tutori dello sviluppo dello spazio rurale sia nell’ambito delle attività strettamente agricole forestali, sia in quello a livello superiore riguardante l’ordinato uso e sviluppo del territorio.
La nuova prospettiva trovò l’incoraggiamento di alcuni dirigenti del settore e ciò fu fondamentale per incominciare a concretizzare le ampie e sagaci potenzialità dell’Ordinamento professionale. Nell’ambito delle azioni di categoria per tutelare la professionalità del forestale, rivolte alle Regioni e alle Comunità Montane, un primo risultato (annunciato alla fiera di Verona in aprile 1979) si ottenne proprio nella Regione del Veneto, che emanò una circolare nella quale veniva richiesta la competenza del laureato in scienze forestali per la progettazione e direzione lavori di specifico argomento forestale.
Nel sostegno alla professione, particolare rilievo ebbe la figura del Dr. Battista Costantini, direttore del Dipartimento Economia Montana e Foreste della Regione del Veneto. In una visione di potenziamento di tutta la gestione forestale, egli garantì una base di spazio professionale ed evitò il verificarsi delle resistenze e frizioni che alcuni burocrati, gelosi della propria esclusività, tendevano a suscitare.
Lo spazio fondamentale partì dai piani di riassetto (cioè di assestamento), assicurati dall’art. 22 della legge forestale regionale del settembre 1978, splendida nella sua semplicità e completezza. Allievi del Prof. Bernardo Hellrigl, eravamo coscienti che nell'assestamento il passato, il presente e il futuro si incontrano idealmente per dare corpo ad un insieme di intenti, prescrizioni e previsioni atti a traghettare la foresta dal suo stato ed assetto attuale verso orizzonti migliori tanto per il bosco quanto per l'uomo e dunque che assicurare che i piani potessero essere conferiti dagli enti proprietari a liberi professionisti consentiva a questi di esercitare un sapere non subalterno e non solo strumentale.
Entrando in funzione le Comunità montane (a quel tempo 18, poi 19) ed estendendosi i beneficiari degli interventi sul territorio (Comuni, Regole, aziende, privati…), si ampliò la possibilità di progettare strade forestali e miglioramenti di boschi, malghe, piste da sci, ecc. In seguito, sono giunte le occasioni offerte dai finanziamenti europei e, fino ai giorni nostri, dal Programma di Sviluppo Rurale.
Così la professione forestale nel Veneto si è concretizzata ed espansa progressivamente perseguendo l’esercizio dell’art. 2 della legge 3/1976 e successive disposizioni nazionali e norme comunitarie che ne disciplinano gli aspetti: contenuti ampi e spaziosi, come si sa, e che non è sempre stato facile conseguire e/o mantenere. Spesso è necessario un continuo aggiornamento, non solo tecnico ma anche culturale, soprattutto dove vanno recepiti vari aspetti della complessità degli ecosistemi. Particolarmente nelle zone di montagna, ricche di boschi, di pascoli, di aree naturali protette, di realtà forestali e anche agricole (magari piccole ma vitali), è stato possibile al dottore forestale o agronomo essere presente e prendere decisioni in merito allo sviluppo o alla gestione del territorio, in qualche caso in forma diretta, in qualche altro attraverso il contenuto degli elaborati dei suoi lavori.
La possibilità di lavorare sul campo ha prodotto anche alcuni professionisti riconosciuti ad alto grado del loro sapere professionale, che ben hanno figurato con analoghi colleghi della migliore pubblica amministrazione, di istituti di ricerca e dell’università. In certi casi essi hanno varcato temporaneamente i confini per mettersi alla prova anche all’estero, con effetti positivi. Va segnalato inoltre che professionisti dell’Ordine, inseriti in gruppi di lavoro comprendenti più soggetti istituzionali (Regione, Università ecc.), sono stati determinanti per il conseguimento di risultati di successo. Viceversa, sono risultate spesso vane e sprecate iniziative top-down che hanno ritenuto di fare a meno dei tecnici forestali conoscitori della realtà territoriale.
Un esempio di questo positivo connubio è stata la formulazione delle tipologie forestali nel 1990: Prodromi nel Veneto, ma anche in tutt’Italia. Il libro Biodiversità e indicatori di tipi forestali del Veneto, uscito all’inizio dell’anno 2000 è altresì un caso di proficua collaborazione di forestali dell’Università (Prof. Roberto Del Favero), liberi professionisti e funzionari della Regione del Veneto.
Negli ultimi decenni la multifunzionalità dei boschi si è ampliata, passando dal bilanciamento tra la produzione legnosa e la protezione idrogeologica a coinvolgere progressivamente servizi ambientali e paesaggistici. In questa fase i dottori forestali hanno avuto occasione di essere protagonisti, sostituendo i colleghi del Corpo Forestale dello Stato e compartecipando con quelli della Regione. Metodi operativi, come quelli basati sulle tipologie forestali, eseguiti da tecnici specificamente preparati, hanno consentito di elevare il livello qualitativo di gestione dei boschi. Ci fa piacere ricordare come alcuni obiettivi della biodiversità abbiano coinciso con linee fondamentali della gestione forestale (così come l’abbiamo intesa nel Veneto e dalla scuola del Prof. Susmel). E, per quanto riguarda il pensiero del Prof. Hellrigl, la nuova visione della gestione non rinnega ma amplia quella solida della durevolezza.
L’idea di essere eredi di una tradizione forestale unitaria, che non distingue liberi professionisti da pubblici dipendenti, si è dunque conservata e trasmessa con orgoglio.
Non va sottaciuto che alcuni problemi che hanno scombinato le istituzioni forestali della Regione nell’ultimo ventennio hanno avuto riflessi anche nei liberi professionisti. Ci sono state talora divergenze e anche casi di guardinghi rapporti personali e casi configurabili come interferenze nella sfera professionale. Si tratta comunque di attriti sorpassati. Un culmine di questo infelice periodo è stata la sospensione del finanziamento dei piani di riassetto, che avevano costituito un fiore all’occhiello del Veneto forestale e, come si è detto, spazio importante per i dottori forestali. Per fortuna, di recente la pianificazione forestale è stata riavviata e sembra aver ripreso il ruolo centrale che le spetta.
Oltre ai compiti propri di pianificazione tali piani contengono le descrizioni e il monitoraggio di numerosi parametri ed indicatori di caratteristiche di interesse ecologico, territoriale e ambientale, non solo attuali ma anche potenziali. I dati utilizzati per quantificare i danni subìti dai boschi per la tempesta Vaia dell’autunno 2018 sono stati ancora quelli dei piani di riassetto. Se per l’interpretazione fossero stati coinvolti i dottori forestali che li avevano redatti, le estrapolazioni sarebbero state in molti casi più comprovabili. Sembrava che tutto dovesse essere superato dai rilievi satellitari ma in realtà i risultati non sono stati clamorosi come si attendeva o comunque non sono stati comunicati ai professionisti operanti, che potevano proficuamente utilizzarli sul campo.
Con gli eventi calamitosi appena citati venne subito segnalato agli organi competenti che la figura del dottore agronomo e dottore forestale libero professionista si prestava a svolgere un’importante attività di assistenza agli enti comunali o proprietari di boschi (comprese le Regole), nonché a sostegno di proprietari privati, nella prima gestione dell’emergenza e nella successiva impostazione degli interventi di ripristino e gestione delle superfici boscate danneggiate dagli eventi metereologici eccezionali. Riferendosi in particolare alla menzionata potenziale stima dei danni, si evidenziava che tale figura era importante per la conoscenza del territorio e degli enti proprietari, nonché per possedere una importante banca dati concernente il rilievo delle masse e delle utilizzazioni pregresse.
Questa disponibilità non fu recepita subito - come avrebbe potuto essere - per diverse ragioni, alcune delle quali vanno inquadrate nello sconquasso causato da Vaia nel territorio interessato e non solo nei boschi. Nella primavera del 2019, però, venivano emanate delle linee guida per l’asportazione del legname e dei residui vegetali nelle aree percorse da schianti che consigliavano il ricorso all’assistenza di un tecnico libero professionista forestale a supporto delle valutazioni degli amministratori comunali e dell’attuazione del rispettivo piano degli interventi. Delle Ordinanze per la riparazione dei danni ai privati venivano basate poi su perizie asseverate, conferendo responsabilità sostanziali ai professionisti.
Su quanto è accaduto con la cosiddetta “apocalisse dei boschi veneti” (e non solo veneti) c’è molto da dire e molte sono le lezioni da apprendere. Ci si deve però rendere conto che i lavori di recupero e ripristino sono tuttora in corso, come è in corso l’impiego dei tecnici forestali in questioni impegnative e di responsabilità.
Da Vaia in poi non sono mancati altri danni e la necessità di affrontarli. Ad esempio, nel 2020 ogni giorno di novembre veniva salutato con sollievo perché consentiva un’altra giornata lavorativa per asportazione di schianti. Il bel tempo fuori dell’ordinario si manifestava nell’Alto Bellunese con lo splendore dei larici nella veste autunnale oltre il consueto; poi le nevicate hanno colpito ancora una volta molte conifere, non esentando certi larici, quasi punendole di non aver usato la grazia d’essere decidui per il vezzo di aver conservato in sovrappiù la superba chioma.
Per chiudere questa parte, su come lo scrivente vede il ruolo dei tecnici forestali oggi, e specificamente di quelli appartenenti agli Ordini dei dottori agronomi e dottori forestali, selezionati attraverso un impegnativo esame di stato, soggetti ad una disciplina, ad una formazione continua, ad una deontologia e a tanti obblighi aumentati negli anni, intendo andare oltre un semplice auspicio e non lasciare il sospetto di essere circoscritto da interesse corporativo.
Affermo che l’emergere di una categoria tecnica, distinta e indipendente dal settore pubblico, conferisce stimolo alla professionalità ed è indice di una società evoluta, e che dunque la valorizzazione dei professionisti forestali è un presupposto per il rafforzamento dell’attività forestale ed anche per l’efficienza della pubblica amministrazione.
Bisogna prendere atto che la realizzazione di una politica forestale richiede necessariamente un complesso di tecnici e operatori in grado di attuarla; solo così essa si traduce in strategia con obiettivi concreti ed effettivamente conseguibili.

Prima di correre troppo con l’immaginazione bisogna cercare di far fronte al presente, che si lega all’immediato futuro senza dare una sosta di respiro. Ci si riferisce a quanto appena detto sul cataclisma Vaia e alle problematiche che ha innescato nei pericoli naturali conseguenti, nella sicurezza sul lavoro di asportazione, nelle conseguenze sulla selvicoltura e sull’economia forestale, negli effetti sull’ambiente, nei riflessi sulla società e nel bilancio costi-ricavi via via più sfavorevole. In non poche zone incombono inoltre infestazioni di scolitidi.
Nonostante il lavoro già compiuto, il compito più urgente è quindi ancora il far fronte agli effetti calamitosi dell’autunno 2018: sarebbe stato illusorio pensare che tutto potesse essere già ripianato, auspicando che le pullulazioni del bostrico rimangano contenute e localizzate. Si può immaginare che siano necessari almeno un altro paio d’anni e le conseguenze complessive di Vaia potrebbero essere assorbite forse entro 6-8 anni.
I dottori forestali, che sono coinvolti, hanno il loro da fare: in questo caso, se ci sono meno timori di non essere occupati, subentrano inattese preoccupazioni sull’esito dei compiti assunti.
Ho l’impressione che certe persone, che si avvicendano nelle tribune di convegni con le sembianze di esperti, non siano turbate da questi problemi; suppongo che per lo più non siano mai entrate nel cumulo inestricabile degli schianti per mettersi nei panni di chi deve decidere cosa fare e neanche ne abbiano sentito il bisogno. Ma i veri forestali sono come in trincea.
Descrivere i problemi non è difficile, lo è trovare la soluzione. Talvolta questa sfocia nella cosiddetta alternativa del diavolo, cioè il dover scegliere il male minore. Tale potrà essere, ad esempio, il contrasto agli scolitidi.
E come sarà la situazione dopo? Qui bisognerà ripensare molti aspetti del mestiere.
Chiamare opportunità le prospettive che seguiranno a questa disgrazia sui boschi mi sembra esagerato, se non frivolo. Ci sarà qualche soggetto che dalle tribune ipotizzerà la possibilità di cose mirabolanti, ma le condizionerà a una serie di presupposti di fatto irrealizzabili ancor prima di essere messi al crogiolo della realtà. Realtà che deve affrontare invece il dottore forestale, perché suo compito è la soluzione di problemi reali e non l’esporre teorie o allestire rappresentazioni sceniche.
Se con il palleggiamento delle statistiche generali qualcuno potrà sostenere che il danno è contenuto, tuttavia a livello locale Vaia ha portato ad un impoverimento del patrimonio forestale pubblico e privato, con conseguenze che dureranno a lungo nel tempo; si tratta di una batosta sull’economia del bosco per alcune comunità montanare che vi erano ancora legate.
Da ciò si prospetta un’impegnativa agenda di lavoro. La tempesta Vaia ha riproposto - soprattutto nelle zone colpite - la necessità di una pianificazione forestale diffusa e rinnovata, rivedendone le tecniche e le normative ma tenendola ben ancorata alla conoscenza del territorio e al coinvolgimento dei proprietari pubblici e privati: operazione che non può che essere eseguita sul posto e da dottori forestali.
Si rende necessario poi inserire i dottori forestali nell’attività della protezione civile. Assumendo questo status sarà possibile intervenire subito e con maggiore efficacia al verificarsi di situazioni come quelle che abbiamo tristemente sperimentato.
Tuttavia, le attività forestali del prossimo futuro riguardano non solo zone colpite da Vaia; vi sono difatti situazioni molto differenziate ed una varietà di ambienti: dall’Alto Bellunese alla Val Belluna, dal Monte Baldo all’Altopiano dei Sette Comuni, dal Monte Grappa al Cansiglio, dai Colli Berici agli Euganei, dal Bosco Nordio a Vallevecchia. La loro gestione deve necessariamente continuare, confermando l’importanza della biodiversità e dei molti servizi che essi rendono alla società. Quando nel mercato tornerà la domanda di legname (a prezzi non tracollati come adesso), i boschi veneti nel loro insieme potranno esserne all’altezza.
Alle formazioni forestali esistenti si aggiungono le possibilità di integrare con nuovi boschi e alberature gli spazi rurali e il verde del sistema urbano veneto, che è assai policentrico e ricco di proprie peculiarità. In ciascuno di questi contesti, il dottore forestale può esprimere le proprie competenze e capacità.
Sulle aspettative riguardo al documento di Strategia Forestale Nazionale non entriamo, giacché esse sono comuni ai dottori forestali di tutta Italia. Lo stesso dicasi per la prossima PAC 2021-2027 ed altre politiche regionali, alle quali la Federazione Regionale degli Ordini dei dottori agronomi e dottori forestali del Veneto presta costante attenzione.
Non dimentichiamo che, oltre alle nuove opportunità, ce ne sono di pregresse che si sono quasi perse e che bisognerebbe, almeno in parte, recuperare.
Importante è il coinvolgimento negli aspetti territoriali generali e urbanistici, anche per i motivi sui quali ci si è soffermati trattando di unitarietà tra agronomi e forestali. Una legge regionale del 1985 (la n. 24), riguardante la tutela e l’edificabilità dello spazio rurale, aveva consentito di entrare nei relativi Piani e di darvi un apporto originale; ciò che gli urbanisti hanno poi dimenticato, contando sulla disponibilità di cartografie tematiche disponibili e supponendo di poterle interpretare senza la mediazione di professionisti in materia.
Menziono un altro spazio professionale nel quale si erano ben avviati alcuni agronomi e forestali: quello del Fondo europeo di sviluppo regionale (tipo Interreg e analoghi), che consentono di confrontarsi in prima persona con partner qualificati. All’accaparramento di queste opportunità da parte di soggetti pubblici o privati, meglio introdotti ma meno motivati all’intento di migliorare sul piano tecnico, bisognerà reagire stabilendo contatti diretti e tempestivi.
Le sistemazioni idraulico-forestali sono un altro rammarico. Come abbiamo detto nella prima parte, con esse i tecnici forestali avevano acquisito particolare prestigio dopo l’alluvione del 1966. Riservate agli uffici forestali regionali, quando questi ultimi sono stati sensibilmente ridotti di ruolo, non hanno avuto la parziale sostituzione con dottori forestali liberi professionisti. Nei progetti in corso di realizzazione sui torrenti sconquassati dalla tempesta Vaia, ai quali sono state destinate cospicue somme, si sono fatte sotto altre categorie professionali: un paradosso, se si considera l’elevato livello con cui la materia è insegnata all’Università degli Studi di Padova.
Come si vede, ci sono molti temi con cui cimentarsi, senza cullarsi nelle lusinghe delle nuove opportunità.
La presente riflessione avviene però in un momento epocale come non mai. Una vignetta di stampa circolante un po’ di mesi fa (rispetto alla data di scrittura di questo testo, agosto 2021) rappresenta il mondo attuale investito da tre ondate di tsunami progressive: covid, recessione economica e cambiamenti climatici. Se vogliamo proprio nuove opportunità, tutte e tre queste sciagure ce le forniscono: dobbiamo però detrarne i relativi svantaggi per capire quanto ci rimane in attivo.
Dei cambiamenti climatici abbiamo avuto un assaggio dirompente con Vaia.
Cogliendo poi lo scenario che ci pone l’attuale e reiterata pandemia, le foreste nostrane potranno avere un ruolo ancora più accentuato per benefici igienici che è anche in rapporto all’economia. Se nel turismo emergerà una valorizzazione delle risorse nazionali e locali in un’ottica di “turismo di prossimità”, anche le foreste come spazio ricreativo potranno essere ulteriormente apprezzate.
Per la recessione economica ci limitiamo a fare gli scongiuri, ma prendiamo positivamente atto che i prodotti materiali dei boschi sono sempre una risorsa essenziale, non surrogabile da fantasticherie.
E con questi scenari siamo entrati già nell’evocazione dei rischi.
Non si può ignorare che il Covid-19 sta mutando il sistema sociale ed economico in cui è inserito quello forestale, con effetti che saranno complessi; la limitazione delle relazioni sociali e l’incertezza della vita quotidiana avranno conseguenze anche per la gestione dei boschi.
Il principale rischio è dunque di non essere all’altezza nel fronteggiare queste situazioni, così come, nelle ampie possibilità precedentemente delineate, di imbattersi in più ferrati competitori di altre categorie.
Potrebbe sembrare un controsenso in un momento in cui il bosco è all’attenzione del pubblico considerare un rischio le messaggistiche istantanee dei media, che sottovalutano o ignorano il ruolo dei tecnici forestali. Partendo dal presupposto che i lettori e gli ascoltatori preferiscono le semplificazioni, queste non di rado finiscono in banalizzazioni. Da qui, l’eventuale passaggio alle manipolazioni consente l’infiltrazione di soggetti o comitive improvvisate, talora pittoresche, per l’assalto alla diligenza.
Sempre su questo intento finale, benché formalmente inoppugnabile, vedo il rischio che, essendoci sempre meno colleghi dipendenti pubblici che ricoprono ruoli gerarchici elevati, al loro posto vadano funzionari che conoscono poco la categoria e che privilegino i loro Ordini di provenienza, ai quali sono legati da solidarietà molto più maturate nel tempo che non nel nostro settore: tecnici non forestali che già nel post-Vaia hanno trovato spazi non occupati e vi si sono buttati risolutamente.
Prima di trarre delle deduzioni da questi ragionamenti, approfitto per soffermarmi su alcuni rischi che percepisco personalmente e di cui non tutti hanno la visione.
Per quanto attiene le esperienze in corso con Vaia, temo che l’urgenza di portar via il materiale legnoso schiantato e la semplificazione rischino di indurre talora una malimpronta non temporanea sulle operazioni in bosco. Se in non pochi cantieri senza direzione lavori adeguata si constata palese noncuranza del suolo e di certi aspetti ambientali, bisognerà cercare non solo, per quello che rimane possibile, di procedere a dei restauri, ma anche di rieducare coloro che hanno debordato nel comportamento: e a quest’opera non dovranno sottrarsi i tecnici forestali, anche se non sono stati precedentemente chiamati a prevenire.
Il dover comunque compiere azioni di sgombero drastiche (pur potendo evitare danni come quelli prima menzionati) è una necessità eccezionale e non è selvicoltura. Ci si augura che sia ancora possibile riprendere a martellare in scienza e coscienza nei soprassuoli più complessi e importanti, che rimangono comunque nel Veneto, e che ci siano ancora abbastanza selvicoltori, anche per riaddestrare coloro che si saranno troppo assuefatti ai paesaggi creati dalla tempesta.
Un rischio che si è profilato in queste difficili situazioni operative è il peso dei direttori dei lavori nei confronti delle imprese esecutrici, quando quello che poteva essere un consueto gioco delle parti viene alterato e dove compare la tendenza di queste ultime a sfruttare all’osso le occasioni per lucrare. Beninteso, si tratta di casi singoli, che devono tuttavia essere bloccati prima di espandersi per imitazione.   Il rischio è che il rapporto tra imprese e direzione lavori, oltre che ad una conflittualità fisiologica, tenda sempre più frequentemente a diventare sleale, quando queste cercano ogni cavillo a discapito della qualità dei lavori da realizzare. Tali contenziosi si risolvono magari in ripieghi e transizioni che sono comunque defatiganti. Occorre contrapporre argomentazioni tecnico amministrative e sottigliezze intellettuali, mobilitando le proprie credibilità tecniche, la propria autorevolezza.
Segnalo che i Piani Forestali di Indirizzo Territoriale al momento attuale possono essere importanti per le attività che ne conseguono, ma vi è il rischio che essi siano redatti dall’alto, senza l’apporto di liberi professionisti. Se mancano i conoscitori degli specifici territori, essi finiscono per essere degli studi preliminari privi di concretezza e dunque una sottrazione di risorse che sarebbero meglio allocate nei piani di assestamento.
Forse è meglio che non vada troppo oltre sui rischi che vedo, perché purtroppo essi compongono una lista non stringata ma che può essere sottovalutata da chi non ha la medesima ottica dello scrivente. È difficile rappresentare all’esterno la realtà della situazione in atto; suppongo che l’immagine di molti interlocutori esterni sia piuttosto virtuale, magari in accordo con i copioni dei cantastorie che occupano il proscenio.
Ne consegue che è più conveniente spostare il ragionamento dai rischi alle vulnerabilità. Per assicurarmi di parlare lo stesso linguaggio, intendo che il rischio sia dato dalla probabilità che il nostro sistema subisca un determinato livello e tipo di danno da parte di un evento avverso di una determinata intensità e di determinate modalità. Il rischio è funzione della probabilità temporale dell’evento calamitoso (P/t) con l’entità del danno (D) prodotto sul sistema, secondo la formula: R = f (P/t *D).
Poiché il danno (D), che può essere, ad esempio, mancanza o sottrazione o impoverimento di lavoro, è funzione dell’intensità (i) dell’evento distruttivo (e delle sue modalità spazio-temporali) e della vulnerabilità (V), allora: R = f (P/t *i *V).
I rischi non possiamo evitarli se non in parte limitata, e quindi dobbiamo conviverci. Ma le vulnerabilità sì le possiamo prevenire, ridurre, diminuire, fino ad annullarle. 
Quali sono le vulnerabilità dei tecnici forestali? Le carenze che si riscontrano all’ingresso sono forse significative per puntare l’attenzione sulla adeguatezza dell’istruzione. Perché molti giovani, che hanno di solito assimilato le materie di studio, sono per lo più volenterosi e non di rado costituiscono apprezzabile risorsa umana, risultano così spaesati nel passare al lavoro? Perché il contesto in cui sono stati lietamente per non pochi anni tende a prolungare l’infanzia di studente invece di concentrarli sull’iniziare a lavorare?
Ipotizzo che la causa non sia tanto da imputare alle singole materie ma alla carenza di contatto con la realtà forestale. Forse qualche volta i docenti sono specializzatissimi nelle specifiche materie, ma non è sufficiente il collegamento complessivo tra queste per creare una visione unitaria e pratica. 
Forse è necessario che in un’epoca di cambiamento alcune questioni cruciali vengano messe in discussione; se questo poteva non essere necessario prima delle sfide di questi tempi recenti, ora lo è: ripensare a fondo la gestione dei boschi, riducendone quantomeno le vulnerabilità di esclusiva matrice umana. Ciò può comportare anche la rinuncia ad affidarsi a certe teorie seducenti, ma di cui non si è mai vista la concretizzazione, o l’astensione a suscitare utopie, che potevano essere forse prospettate quando il futuro sembrava senza limiti, ma che saranno ancora più improbabili in quello affatto roseo che si profila.
E così dobbiamo passare a sanare le vulnerabilità dall’origine a quelle d’insieme (per non adottare anche noi il termine “di gregge”): e qui c’è molto da fare, perché non sono novità disgiunzioni e parrocchiette.
Forse le più grandi vulnerabilità le potremmo evitare imparando a muoverci in modo compatto, ovviamente dopo aver condiviso le idee: basta prendere esempio da alcune grandi categorie professionali che hanno uno spirito molto più coeso e che anche da questo traggono potenza.
Per quanto riguarda le vulnerabilità specifiche dei dottori forestali, alcune sono identificabili e, per quanto di competenza, gli Ordini provinciali/Federazione/Conaf cercano costantemente di farvi fronte. Le più grosse sono però riconducibili alla labilità del sistema forestale e, paradossalmente, con la reticenza di certe sue componenti a riconoscere l’asserzione con la quale ho chiuso la prima parte.
Con ciò torniamo alla mia tesi sulla necessaria indissolubilità forestale: dopo la verifica di una unità di indirizzi, dobbiamo cercare di perseguire una unità di azione!