Gestione forestale

C’è coerenza tra gli strumenti di tutela del territorio e del paesaggio, le politiche forestali e la conservazione della biodiversità? Due casi esemplificativi in Sicilia: ericeti e sugherete

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di Tommaso La Mantia

Articolo tratto dalla relazione presentata nella sessione “Nuove sfide per la gestione multifunzionale e la ricerca: dallo studio del passato al ruolo delle foreste del futuro” (8:30-10:30 Mercoledi 11 Settembre 2024 ) del XIV Congresso Nazionale SISEF “Foreste per il futuro” (Padova).

I paesaggi del Mediterraneo sono il frutto di una interazione millenaria tra l’uomo e l’ambiente; la rarità di foreste primarie nell’Europa mediterranea lo conferma (Barredo et al. 2021). Facendo riferimento a ciò che è accaduto fino alla seconda metà del secolo scorso, quando si è intensificata l’urbanizzazione - che non è interazione, ma espansione violenta - l’azione di trasformazione ha certamente cancellato, in particolare, molti ecosistemi forestali e ambienti umidi causando la sparizione di molte specie animali e vegetali. La tutela del territorio, in pratica l’istituzione di aree protette, che ha subito un’accelerazione a partire dalla seconda metà del secolo scorso, fondamentalmente nasce per rispondere a questo fenomeno e per tutelare la (bio)diversità [1] e, contemporaneamente, ma quasi inconsapevolmente, i paesaggi che la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) definisce: “Una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.

Il rapporto tra tutela della biodiversità - quindi la politica delle aree protette - e le politiche di tutela del paesaggio è, tuttavia, almeno storicamente conflittuale. Gioia Gibelli (2011) ex presidente della Siep-Iale (Sezione Italiana della International Association for Landscape Ecology, Società Italiana di Ecologia del Paesaggio) così scriveva: “Cosa c’entra la biodiversità con il paesaggio? Problema tutto italiano. O meglio, soprattutto italiano. In altre parti d’Europa la questione non si pone. La tradizione paesaggistica d’oltralpe da sempre considera la natura, le componenti ambientali e, di conseguenza, la biodiversità come elementi fondanti e fondamentali del paesaggio. La cultura paesaggistica italiana, invece, di radici letterarie e pittoriche, stenta a riconoscere al paesaggio connotazioni ulteriori rispetto a quelle estetiche e culturali”. Un’analisi dettagliata e interessante a livello europeo “sul rapporto non ovvio fra paesaggio e biodiversità”, alla quale rimando, è stata compiuta da Seardo (2011). Nel frattempo, comunque, tanto è successo in Italia per ridurre queste distanze ma, come mi sforzerò di dimostrare, è ed era, comunque, un falso problema.
Quello che emerge dagli sviluppi attuativi seguiti alla CEP è che le politiche nazionali di tutela dei paesaggi hanno sempre più evidenziato la relazione tra gli stessi - ricordiamolo, frutto di modifiche della composizione vegetale originaria - e la biodiversità, facendo sparire una divisione che era del tutto artificiosa. Ad esempio, il documento tematico del Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali a supporto del PSR 2007-2013 scriveva a proposito delle foreste: “Gli studi condotti sulla biodiversità forestale in Italia cominciano ad essere numerosi e, finalmente, dopo anni di valorizzazione della biodiversità naturale si comincia a prendere atto che esiste una diversità legata all’azione della cultura e della storia”, si tratta della “diversità bioculturale”, valore ormai consolidato (vedi Agnoletti 2018).

In una fase in cui le superfici forestali sono in espansione, si evidenzia come sono proprio i paesaggi frutto dell’azione secolare dell’uomo quelli dove è maggiormente a rischio la biodiversità. Ad esempio, a livello europeo le specie di uccelli a rischio sono per il 23% legati ad “Agricultural and grassland habitats” e per il 3% a “Boreal and temperate forests” (Ieronymidou et al. 2015). Con riferimento a molti più taxa, recentemente Hochkirch et al. (2023) scrivono: “Molte specie europee richiedono o sono adattate all'uso tradizionale del suolo agricolo [...] mentre l’agricoltura praticata su ridotte superfici è in declino, portando all'abbandono delle terre marginali, che spesso sono particolarmente ricche di specie e dipendono dall'uso estensivo del suolo agricolo [...]. Molte specie minacciate in Europa sono adattate agli habitat delle praterie, che possono essere mantenute solo dal pascolo del bestiame o dallo sfalcio [...]. L'abbandono dell'uso tradizionale del suolo è una minaccia anche per alcune specie forestali, che possono dipendere da una gestione storica come il ceduo o il pascolo forestale.

A livello regionale, in Sicilia, alcuni indicatori come gli uccelli testimoniano la salute dei nostri boschi e, al contrario, la rarefazione delle specie legate ai sistemi agrari e agro-forestali (La Mantia et al., 2014, Massa e La Mantia 2010).
Nonostante ciò, si assiste, invece, ad un contraddittorio frapporre di ostacoli dovuto alla mancanza di questa consapevolezza: l’assoluta necessità di conservare questi agro- e silvo-sistemi. Si propone, senza che ciò possa comunque accadere per la pressione del pascolo e gli incendi, di fare evolvere ad esempio le pinete a pino laricio o le sugherete verso formazioni più vicine alla vegetazione potenziale, come se qualche ettaro di bosco a querce in più possa aumentare la naturalità e il valore dei boschi siciliani e non, come realmente avviene, perdere diversità paesaggistica.

I due casi studio qui presentati, anche se riguardano la Sicilia, sia per le formazioni trattate, diffuse a livello nazionale, sia per la problematica che pongono, sono rappresentativi delle difficoltà di come una gestione forestale coerente con lo scenario nazionale e internazionale in termini di tutela della biodiversità e del paesaggio fatichi a farsi strada. Gli esempi potrebbero allargarsi alla gestione delle pinete di pino laricio e domestico, dei castagneti e, in generale, dei cedui, che meriterebbero senz’altro un futuro specifico approfondimento.

Ma prima di passare ai casi studio occorre ribadire che In Italia (e quindi anche in Sicilia) la maggior parte delle riserve naturali, così come dei Parchi regionali e Nazionali, ricadono all’interno di SIC e ZSC. Il WWF (2021) così scrive: “In realtà il concetto di area protetta va considerato in termini più ampi, dal momento che le Direttive europee Uccelli (Dir. 79/409/CEE) ed Habitat (Dir. 92/43/CEE) hanno determinato anche in Italia la definizione di sistema di aree sottoposte a vincoli comunitari complessivamente definite Rete Natura 2000; secondo l’Unione Europea questa è lo strumento principale finora adottato per mantenere la biodiversità”. Recentemente la Corte di cassazione (sentenza Corte cass., Sez. III, 15 luglio 2022, n. 27466) ha ribadito il: “Risalente insegnamento secondo cui il concetto di ‘aree naturali protette’ è più ampio di quello comprendente le categorie dei parchi nazionali […] in quanto ricomprende […] anche i siti di importanza comunitaria (SIC)”.

 

Ericeti

I regolamenti delle aree protette prevedono la salvaguardia delle attività agricole e zootecniche tradizionali; in Sicilia la necessità di conciliare attività tradizionali e salvaguardia degli habitat è stata ribadita dall’Assessorato Territorio Ambiente che, a quasi vent’anni dalle legge istitutiva sulle arre protette (1981), così scriveva (Angelini 2008): “Il percorso attuato dalla Regione Siciliana, al fine di tutelare e proteggere il patrimonio naturale, si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta con l’istituzione di aree naturali protette, riserve e parchi, che non solo assicurasse la tutela degli habitat e della diversità biologica esistenti, ma promuovesse anche un’ipotesi di sviluppo legata all’uso sostenibile delle risorse territoriali e ambientali e delle attività tradizionali proprie delle aree interessate”.

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Estrazione del ciocco d'erica in Sicilia

 

Esemplificativa della contraddizione di cui si diceva in premessa è l’opposizione all’utilizzazione del ciocco d’erica all’interno delle aree protette, sebbene la sua utilizzazione non abbia controindicazioni ambientali: avviene infatti manualmente e non estirpando le piante in maniera continuativa. Questa opposizione è in contraddizione con quanto scrive, ad esempio, il primo “Rapporto sullo stato del paesaggio in Italia” (ONPR 2018):“Fra le moltissime forme di paesaggio forestale vi sono gli arbusteti, spesso chiamati “macchie”[...]. Contrariamente a quanto si legge in molti inquadramenti naturalistici e vincoli paesistici non si tratta di formazioni naturali, ma quasi sempre di origine antropica […]. Dalla zona ipogea (dell’erica, n.d.A.) si estraggono il "ciocco" per sbozzi da pipe da cui si ricavavano, e si ricavano ancora oggi, i "fornelletti" o “braceri" per le pipe di erica. È evidente come molti di questi impieghi potrebbero ancora oggi costituire un utile supporto per l’uso di materiali naturali sia in agricoltura, sia in altre attività, conservando anche il paesaggio. Recentemente, il “Piano Forestale Regionale 2021-2025” della Sicilia, alla voce “estrazione del ciocco di erica” scrive: “La radice estratta dall’Erica arborea L., detta “ciocco” o “sbozzo” e “pezzola” è molto pregiata e ricercata in Italia per la produzione di pipe […]. In molti piccoli comuni dei Peloritani orientali […] l’estrazione del ciocco, insieme all’allevamento di capre e pecore, non solo fornisce la sussistenza alle popolazioni locali, ma rappresenta anche uno dei più originali elementi della cultura tradizionale. Tuttavia, l’utilizzazione dell’erica ha subito di recente un forte declino a causa di vari fattori sia socio-economici sia ambientali: la riduzione della domanda da parte delle regioni nordamericane […], la diffusione degli incendi”.
In realtà oggi c’è una fortissima richiesta di ciocco d’erica di qualità (come quello siciliano) che non può essere soddisfatta proprio a causa dei vincoli esistenti.

L’utilizzazione dell’erica e la sua trasformazione vanta una storia antichissima (La Mantia et al. 2006 e 2007) e le attività anche informative sul tema sono misconosciute ma continue (La Mantia in Preparazione).

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Lavorazione del ciocco d'erica per la produzione di pipe (per gentile concessione delle ditte Manno e Savinelli)

 

Gli ericeti sono un habitat, il 5330 (Arbusteti termo-mediterranei e pre-desertici) e la Regione Siciliana nel recente “Piano di Azioni Prioritarie della Rete Natura 2000 in Sicilia” (PAF) (Regione Siciliana 2021) scrive tra le “Misure necessarie per mantenere o ripristinare uno stato di conservazione soddisfacente” e tra le “Misure di mantenimento” di: Prevenire la conversione in foresta di habitat naturali e seminaturali, nonché degli habitat delle specie oggetto delle direttive sulla natura (ad es. imboschimento), prevenire la conversione di foreste naturali e seminaturali in piantagioni forestali intensive o monocolture”. Inoltre, nei “Risultati attesi per specie e tipi di habitat bersaglio”, scrive di: “Preservare e ripristinare gli habitat 5330 che sono stati “colpiti da incendi o processi naturali biotici e abiotici per rallentare, arrestare o invertire i processi naturali.

La macchia a erica è l’ambiente elettivo della Magnanina (Sylvia undata), un piccolo passeriforme che la “Lista Rossa IUCN degli uccelli nidificanti in Italia” (Gustin et al. 2021) considerava nel 2012 “Vulnerabile” mentre nel 2021 rientra nella categoria “Carente di dati” e, a livello globale, “Quasi minacciata”. Inoltre, l’eradicazione - non continua - dell’erica crea delle radure idonee all’alimentazione della endemica Coturnice siciliana (Alectoris graeca whitakeri); nel PAF lo stato di conservazione di questa specie è indicata come “sfavorevole-inadeguato” e, tra le principali minacce per la specie, indica la “Perdita di habitat; Incendio; Bracconaggio; Inquinamento genetico” negli habitat 5330 e 4090. Osservazioni inedite hanno dimostrano che le coturnici si spostano in basso a cercare ambienti aperti idonei all’alimentazione esponendosi a fenomeni di bracconaggio.

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Ericeto abbandonato in evoluzione e coturnice siciliana (foto A. La Mantia)

 

 Nonostante questo, le richieste di utilizzazione del ciocco vengono respinte nelle aree protette con le motivazioni che “danneggiano le piante spontanee”, e/o che “l'estrazione del ciocco d'erica non è tra le attività agricole e zootecniche”, o ancora che “potrebbero danneggiare gli habitat prioritari, 6220* e 91AA*”. L’habitat 6220* (Percorsi substeppici di graminacee e piante annue dei Thero-Brachypodietea - asteriscato perché habitat prioritario) è chiaramente, come nella maggior parte dei casi in Europa, un habitat secondario, frutto cioè del degrado della vegetazione preesistente; infatti, la vegetazione potenziale dell’area (Regione Siciliana 1999) ricade nei boschi di querce a foglia caduca (91AA* Boschi orientali di quercia bianca). L’attività di estirpazione di singole piante di erica crea invece temporaneamente delle radure (aree a 6220*) fondamentali per la conservazione della biodiversità, mentre la mancata utilizzazione delle piante di querce che si rinnovano contribuisce a lasciare che porzioni evolvano verso la vegetazione potenziale a 91AA*. Inoltre, recentemente Blasi et al. (2023) nella loro analisi sul livello di rischio degli ecosistemi italiani, considerano gli “Ecosistemi arbustivi a specie sempreverdi, peninsulari, a Phillyrea latifolia, Arbutus unedo, Erica arborea, Pistacia lentiscus, Myrtus communis, Rosa sempervirens” come vulnerabili.  Si consideri che l’utilizzazione consente di mantenere anche un presidio contro gli incendi, che sono il peggior nemico della qualità del ciocco d’erica e degli ericeti e che, in luoghi come i Peloritani, a causa della loro morfologia, una volta partiti possono essere difficilmente spenti.

 

Sugherete

Esemplificativa per quanto riguarda il rischio incendi è la mancata gestione delle sugherete, a fronte di un rinnovato e crescente interesse per queste formazioni (è stato approvato in conferenza Stato-Regioni il Piano Sughericolo Nazionale); nonostante la valorizzazione del sughero in bioedilizia e in viticoltura molte sugherete, soprattutto quelle pubbliche, versano in stato di abbandono e sono a forte rischio incendi. Tralasciamo qui le evidenti e importanti ragioni economiche e sociali per le quali le sugherete andrebbero tutelate, soffermandoci sugli aspetti che potrebbero sembrare in contrasto con la normativa vigente, cioè i regolamenti che disciplinano le attività all’interno delle aree protette.

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Sughereta abbandonata in Sicilia

 

Il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali (TUFF), all’Art. 4 “Aree assimilate a bosco” scrive: “Nei boschi di sughera di cui alla legge 18 luglio 1956, n. 759 […] sono consentiti gli interventi colturali disciplinati dalla medesima legge e da specifiche disposizioni regionali”. La Strategia Forestale Nazionale, per la sotto Azione B.3.4 (Promuovere i prodotti forestali spontanei) propone di incentivare lo sviluppo di imprese e filiere locali dei prodotti forestali spontanei non legnosi tra cui il sughero e, all’Azione Specifica 9 (Agroselvicoltura, sistemi agroforestali e sughericoltura): In questo contesto rientra anche la sughericoltura (o subericoltura) ovvero la coltivazione e gestione, in impianti (sughereti) o con pratiche colturali in sughereti naturali, delle querce da sughero per la produzione del sughero commerciale” prevedendo altresì una sotto-azione specifica per la “Valorizzazione della sughericoltura e dei sistemi agro-silvo-pastorali con presenza di sughera”.

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Sughereta colpita da incendio in Sicilia

 

Le sugherete, secondo Rete Natura 2000, sono un Habitat[2] (esattamente il 9330 - Foreste di Quercus suber) e sono incluse nella classificazione di CORINE Biotopes (Codice 45.21 per la Sicilia 45.215 - Southern Italian cork-oak forests) e nella classificazione EUNIS (European Nature Information System - Sistema informativo europeo della natura) (Codice G2.11 - Boschi di Quercus suber) (Lapresa et al. 2004). Biondi et. al (2014) scrivevano: “Inoltre occorre sottolineare che alcuni degli habitat inseriti nell’allegato I, nonostante il loro grande rilievo conservazionistico, non sono considerati prioritari. Questi risultano in molti casi estremamente rari in Italia e in grave pericolo di estinzione […]. È questo il caso di molti habitat costieri o di ambienti umidi ed alcuni forestali […] 9330 […]. L’elenco può sembrare eccessivamente lungo, ma lo stato di degrado e/o di rarità di queste fitocenosi è notevole in tutto il territorio italiano e quindi le azioni di salvaguardia devono esercitarsi con la massima urgenza, applicando una gestione rispettosa degli ecosistemi che queste tipologie di vegetazione indicano.

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Estrazione del sughero in Sicilia

 

Questa analisi è confermata recentemente da Blasi et al. (2023) che considerano gli “Ecosistemi forestali a Quercus ilex subsp. ilex e Q. suber delle Isole maggiori” come “Endangered”, quindi a rischio.
Il già citato PAF (Regione Siciliana, 2021) alla voce “Misure di ripristino” e “Interventi di miglioramento e valorizzazione delle sugherete delle Madonie e degli Iblei (9330)” prevede per le sugherete: “Interventi selvicolturali per favorire la rinnovazione dei soprassuoli incendiati, interventi di decespugliamento selettivo per conservare le specie endemiche e/o rare e ridurre la frequenza di quelle invasive […]”.

Nonostante tutto ciò si assiste a “resistenze” per la messa in atto di azioni di conservazione e tutela attiva delle sugherete, la cui superficie, secondo la Strategia Forestale Nazionale, dovrebbe aumentare! 

 

Conclusioni

Per rispondere alla domanda del titolo, come credo questi due esempi dimostrano (altri potremmo considerarne), la coerenza tra le politiche di tutela del territorio e del paesaggio, le politiche forestali e la conservazione della biodiversità c’è ed è totale. Forse quella che manca è la conoscenza e/o la consapevolezza di chi applica queste politiche e queste norme. Si sottolineano tre aspetti, a parere di chi scrive dirimenti, per affrontare correttamente le questioni poste: la gestione, gli incendi, la misurazione della biodiversità e dei servizi ecosistemici.

Per quanto riguarda la gestione, bisognerebbe avere il coraggio di cominciare a pensare che queste formazioni vadano affidate a privati, anche con formule che prevedano la gestione pubblico-privato; se qualcuno pensa che ciò sottragga lavoro agli operai forestali si guardi attorno e veda l’enormità di lavoro che ci sarebbe da compiere per loro: siamo ritornati alla metà del secolo scorso (vedi La Mantia 2023). Riportare le genti nelle campagne e nei boschi (e non solamente gli operai forestali), dovrebbe essere un imperativo per chiunque ha a cura le sorti di questa regione e di buona parte dell’Italia peninsulare e per proteggere ciò che rimane dei boschi e delle aree pre-forestali.

Si ribadisce qui la questione degli incendi senza riportare dati statistici, con facilità altrove rinvenibili; gli incendi sono in aumento nonostante gli investimenti nello spegnimento. Essi non sono più una possibilità, ma una certezza e si combattono anche - ma direi soprattutto - attraverso il presidio che si può ottenere ridando un significato economico e sociale ai boschi e alle formazioni agroforestali (Damianidis et al. 2021). Bisogna far tornare il senso di responsabilità e applicare modalità di gestione del territorio già sperimentate altrove, come nel Parco dell’Aspromonte (vedi La Mantia 2021) come scriveva Piussi (2003): “E’ impossibile separare la natura dalla società; il paesaggio che percepiamo è un prodotto culturale, perciò un prodotto storico […]. La foresta è lo spazio che possiede un valore in quanto contribuisce a definire la nostra identità. Allorché si percepisce la foresta come uno spazio, e precisamente, rendendosi conto dei legami che esistono nel territorio, si sviluppa il senso di responsabilità che sentiamo per esso”.

Infine, non c’è alcuna contraddizione tra conservazione della biodiversità animale e vegetale, della diversità bioculturale e dell’utilizzo delle risorse forestali (sughero, erica, pinoli, manna, castagne, legno), compresa l’integrazione con il pascolo. Il WWF nel suo sito, in una pagina dedicata alle aree protette scrive: L’obiettivo del sistema di aree protette italiane è quello di tutelare la biodiversità favorendo forme di economia sostenibili e valorizzazione delle tradizioni locali.

In ultimo, a chi gestisce e prende delle decisioni per le aree protette dico che la diversità di alcuni gruppi tassonomici si misura, e lo stesso vale per i servizi ecosistemici: è sbagliato pretendere che ogni azione di quelle “paventate” sia seguita da un’analisi e quindi da un bilancio di questi due parametri?

Naturalmente - lo scrivo per evitare strumentali semplificazioni - tutto ciò non significa andare contro alle aree protette, la cui istituzione ritengo sia una pagina esaltante della storia civile dell’Italia e della Sicilia in particolare, ma si tratta di pretendere valutazioni oneste basate su metodi scientifici aggiornati (Jetz et al. 2022). Se aumenta il 6220* perché si è incendiato un arbusteto è un vantaggio reale? Di contro, se in un luogo dove questo habitat è secondario e lo stesso diminuisce a favore della macchia, è un vantaggio o uno svantaggio?

Non si può pretendere di ragionare secondo dogmi, ma è quello che, ahimè, spesso caratterizza la gestione delle aree protette in Sicilia.

Autore:

Tommaso La Mantia, Dipartimento Scienze Agrarie Alimentari e Forestali, Università degli studi di Palermo. E-mail: 

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