È davvero necessario e utile "umanizzare" alberi e natura?

di Luigi Torreggiani
Suzanne Simard, Peter Wohlleben, Richard Powers, Stefano Mancuso.
Questi e altri scienziati, tecnici e scrittori di grande successo, con alle spalle milioni di copie di libri venduti, ma anche centinaia di conferenze, articoli di giornale e interventi televisivi, hanno in comune un’idea, o meglio, un “taglio narrativo” molto preciso: quello di descrivere caratteristiche e comportamenti di alberi e organismi vegetali attraverso similitudini molto spinte con gli esseri umani. Concetti come l’intelligenza delle piante, descrizioni di Piante madri che si prendono cura della prole, il bosco visto come sistema socialista o ancora l’immagine del Wood Wide Web, la “rete di comunicazione sotterranea delle foreste” attraverso i funghi, hanno affascinato milioni e milioni di persone in tutto il mondo.
Ma questa umanizzazione edulcorante della natura fa davvero bene al rapporto, sempre più sfilacciato, tra esseri umani ed ecosistemi?
Se lo è chiesto, in un approfondito articolo a firma di Daniel Immerwahr, il Guardian, uno dei quotidiani più letti al mondo. Il titolo del pezzo è già di per sé un programma: “Alberi madri e foreste socialiste: il Wood-Wide Web è una fantasia?”
Nell’articolo si spiega come la comunità scientifica internazionale sia molto spesso decisamente scettica rispetto a certe ricostruzioni al limite della fantasia di questi e altri autori. Secondo molti scienziati, infatti, i dati a supporto di determinate teorie sono pochi e non raccolti a dovere. Diversi studi, ad esempio, hanno pesantemente contestato alcune teorie di Suzanne Simard relative appunto alla presenza di “Piante madri” e al sistema del “Wood Wide Web”, arrivando spesso a risultati diametralmente opposti.
Ma allora perché questo mix di scienza e narrazione è così popolare e fa così tanta presa sull’opinione pubblica?
Comprenderlo è relativamente semplice. Si tratta molto spesso di storie benevole, rassicuranti, perfette per questo periodo storico: la natura sempre buona, sempre amica, sempre cooperante in un magico equilibrio che si contrappone ad un'umanità sempre maligna, a cui può insegnare la “via d’uscita” dalla sua autodistruzione. Queste semplificazioni buoniste rappresentano insomma un potente “antidolorifico” efficacissimo per un mondo in cui, tra crisi climatica e della biodiversità, guerre e isolamento da smartphone e social, i dolori della nostra società sempre più urbanocentrica sono molteplici e profondi.
Ma la questione centrale della “coscienza della natura”, sottolinea criticamente l’articolo del Guardian, “è fondamentalmente narcisistica, perché dimostra che le cose meritano stima e attenzione solo nella misura in cui ci ricordano noi stessi”. “Questa è in fondo la premessa implicita di molti libri sulle piante e sugli alberi, con il loro coro di alberi madri, funghi socialisti e rampicanti astuti che eseguono prodigi perfetti per suscitare l'approvazione umana”, commenta l’Autore, chiedendosi poi la domanda delle domande: “È davvero questo il modo migliore di pensare alla natura?”
Per sottolineare questa riflessione, l’articolo riporta un altro quesito fondamentale posto dalla ricercatrice forestale statunitense Justine Karst: “Non abbiamo la capacità di amare e prenderci cura di cose che non sono come noi?”
Umanizzare la natura per descriverla e farne meglio comprendere le dinamiche è un espediente antico, spesso utile ed efficace. Usare termini come “lingua del ghiacciaio”, oppure parlare di “polmoni” per indicare le foreste non rappresenta di per sé un grosso problema. Del resto questo espediente funziona bene anche al contrario, come nel caso del verbo “radicarsi”, o dell’espressione “nuova linfa”. Ma da qui a descrivere i comportamenti di ecosistemi complessi e ancora in parte misteriosi come le foreste al pari di una “famiglia felice in stile Mulino Bianco” c’è un passaggio concettuale in più, che rischia di essere molto pericoloso, perché elimina dalla percezione comune quella parte essenziale di ogni ecosistema che ai nostri occhi può sembrare cattiva, crudele, brutale.
Un piccolo esempio per capire meglio. Quando in un bosco un grande albero muore improvvisamente, mettiamo a causa di un fulmine, si apre uno spazio nella copertura forestale. In quel vuoto, se le condizioni sono idonee, entra molta luce che fa germinare centinaia di semi precedentemente caduti a terra, che presto diventano piccole piantine. Piantine “sorelle”, per seguire la narrazione così di moda, derivanti dalla stessa “madre”. Ma nel giro di pochi anni, tra quelle piantine, inizierà una fortissima fase di competizione per le risorse essenziali alla vita, che porterà la maggior parte di essere a morire. Solo poche, una o due, sopravviveranno e diventeranno alberi adulti. Siamo allora di fronte ad un fratricidio? A spietate piantine assassine, assetate di potere, che arrivano ad uccidere i propri fratelli pur di sopravvivere!? No di certo! Ed è chiaro che nessuno racconterebbe mai questa storia in un libro che punta al successo, perché manderebbe in crisi il modello “disneyano” di natura a cui siamo stati abituati, fin da piccoli, negli ultimi decenni. Eppure la natura funziona proprio così: esiste la simbiosi, ma anche il parassitismo, esiste la cooperazione ma anche la competizione, come esiste, ovviamente, la predazione. Le poche piantine sopravvissute nell’esempio appena riportato sono più buone o più cattive di quelle perite? Non esiste una risposta giusta a questa domanda semplicemente perché è la domanda stessa ad essere profondamente sbagliata: non è corretto attribuire alle piante categorie etiche che appartengono solo all'umano e farlo rischia di mandarci completamente fuori strada.
Di conseguenza, tornando alle sollecitazioni dell’articolo uscito sul Guardian, non sarebbe estremamente più utile, anche se dannatamente più difficile, accettare e raccontare l’intrinseca diversità che esiste tra noi e gli altri esseri viventi e così affrontare in modo più laico e pragmatico la reale complessità del rapporto tra esseri umani e risorse naturali? Una realtà che è fatta inevitabilmente anche di utilizzo, di conflitti, di scelte delicate, di una necessità urgente di trovare nuove strade verso un possibile equilibrio.
Imbottirsi di antidolorifici a volte è necessario, ma non sarebbe più strategico e lungimirante iniziare a concentrarci sulle radici di questa nostra “malattia” collettiva e, soprattutto, sulla ricerca di una vera “guarigione”?
Gli alberi sono alberi, straordinari, affascinanti e anche utilissimi a tutti noi per una moltitudine di beni e servizi. Esseri meravigliosi in sé, senza tante “paillettes narrative” umanizzanti. Il nostro rapporto con alberi e foreste dovrebbe ripartire proprio dall'abitare questa incantevole diversità, da un “antropocentrismo situato” - come ha scritto Papa Francesco nell’ultima Esortazione Apostolica Laudate Deum - che si pone in alternativa ad un “ecocentrismo di maniera” spesso buono per amicarsi il pubblico, ma molto meno efficace per affrontare i problemi complessi, attuali e urgenti dell’umanità e del nostro Pianeta.
L’invito è quello di leggere l’interessante articolo del Guardian (in lingua inglese) ma anche di fermarsi un attimo di più a riflettere ogni qualvolta si legge o si sente parlare di piante e alberi con comportamenti, caratteristiche, doti e virtù prese in prestito dalle specificità umane.
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