Il Silenzio del bosco

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di Simone Borchi
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Fate silenzio! Ho in mente questa espressione, più comando che richiesta, fin dai primi tempi delle scuole elementari, sul finire degli anni Cinquanta e mi rendo conto che, senza esserne pienamente consapevole, io, come i miei compagni, ne percepivamo il significato profondo. Non un semplice stare zitti, ma adottare il silenzio come precondizione dell’ascolto, dell’attenzione e quindi dell’apprendimento.
“Parlare e insegnare appartiene al Maestro, tacere e ascoltare spetta al discepolo”[1] potrebbero essere parole di un mio insegnante di quegli anni, invece risalgono al 540 circa e sono tratte dal capitolo VI della Regola di San Benedetto, che si intitola “Il silenzio”.
A distanza di pochi decenni da quei miei ricordi pare oggi di essere in un altro mondo, con la musica ridotta a frastuono che rimbomba nei negozi, nei supermercati, al ristorante, al bar, in pizzeria e fa tutt’uno con il caos acustico di ogni città e paese, mentre molti passano con cuffie e auricolari, isolati dentro il proprio individuale rumore. Sembra che sia diffusa la paura di parlare, riflettere, confrontarsi e il rumore compone una barriera contro gli altri e se stessi. Non silenzio, non ascolto, non attenzione.
In questo contesto parlare del silenzio e, nella fattispecie, del silenzio del bosco significa costruire un argine contro la corrente, scegliere un diverso modo di percepire e di vivere, costituire un’alternativa scomoda, minoritaria e spesso incompresa.
Il silenzio del bosco non è una situazione in qualche modo definita, ma una condizione soggettiva in cui ci collochiamo, a prescindere dall’effettiva condizione di rumorosità. Non esiste infatti un bosco in cui i rumori siano del tutto assenti e, anche quando non risuonano i bramiti dei cervi, non fischiano i freddi venti di tramontana e grecale e non gracchiano le motoseghe e i trattori dei boscaioli, anche allora se ascoltate profondamente, oltre al vostro respiro, sentirete un ronzio di insetti, scricchiolii di tronchi, un lieve frusciare di chiome o di foglie che cadono. Ma, attenzione, se siete a questo punto avete già abbracciato il silenzio, l’attenzione, l’ascolto.
Cercherò di scrivere del silenzio del bosco in due diversi modi, secondo la tradizione benedettina- camaldolese e secondo la mia esperienza e il mio sentire di selvicoltore.
San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale, cercò tra i monti e i boschi dell’Appennino quei luoghi che il monachesimo orientale identificava nei deserti geografici, in quanto il participio desertum significa luogo abbandonato, disabitato, incolto. Così i monasteri benedettini popolarono i boschi più remoti e si spinsero fin sui rilievi prealpini, alla ricerca di quel silenzio necessario per l’ascolto della parola di Dio, ma anche per rendere quei luoghi curati, abitati, coltivati.
La fondazione dell’Eremo camaldolese, di poco successiva al Mille, ripropone la scelta del bosco come deserto lontano dai rumori, dove meglio si ascolta la parola di Dio e gli alberi sono il mare verde in cui emerge l’isola monastica, protetta e protettrice di quanto la circonda.
Questa collocazione spinge fin dall’inizio i monaci a un rapporto reciproco con la foresta, coerente con il libro della Genesi che vuole l’uomo coltivatore e custode del giardino di Eden [2], costruendo una rete di relazioni che in oltre otto secoli diverrà anche luminoso esempio di capacità selvicolturale in un contesto di rispetto della dignità lavorativa e sociale dell’uomo, anche se la visione camaldolese resta ancorata prima di tutto a una lezione teologica.
Una suggestiva riflessione sul silenzio nella tradizione monastica viene dalle parole di Salvatore Frigerio, monaco camaldolese : “Il silenzio diventa lo spazio naturale della riflessione, della conoscenza, di quella statio, cioè di quella sosta necessaria a sgombrare la mente da quanto distrae e impedisce un dialogo proficuo con Dio e con l’Uomo…”[3].
I silenzi diventano quindi eloquenti e parlano a chi sa ascoltare, invitano a riflettere, ad approfondire in senso teologico ma anche laico, perché la conoscenza passa dall’umiltà dell’ascolto.
Il mio punto di vista di forestale, di selvicoltore sul “silenzio del bosco” parte dall’umiltà di chi sa di essere curatore pro-tempore di una sequela di successioni vegetazionali che vanno ben oltre la dimensione di una vita umana. Spesso è proprio il forestale, con i rumori dei tagli e delle macchine, a rompere apparentemente l’armonia, ma si tratta appena di un brusio in confronto alla vastità dei boschi che, in silenzio, crescono. D’altronde il bosco e tutta la natura non hanno bisogno dell’uomo, ma è l’uomo che ha bisogno di coltivare per la propria vita la terra e il bosco, almeno fino a quando non si riuscirà a riprodurre in modo economico i meccanismi di fotosintesi.
Alex Langer nei suoi scritti non ha mai accennato al bosco e ai selvicoltori, ma la sua idea di “conversione ecologica” si radica nell’etica sostenibile effettivamente praticata in comunità locali, incrociate con le dimensioni regionali e globale. Sicuramente la sua infanzia scandiva in modo naturale il rapporto con il bosco, con quella interdipendenza così familiare da essere quasi scontata. Si trattava di boschi fortemente antropizzati, disposti sui versanti al di sopra delle coltivazioni a cereali, ancora molto diffuse nelle valli alpine, e al di sotto dei pascoli arrampicati fin sui crinali. Paesaggi costruiti dall’ingegno, dalla fatica e dall’affetto dell’uomo, non per distruggere, ma per rendere domestico e quindi utilizzabile per la vita anche l’ambiente più difficile. L’aggettivo domestico è estraneo a forme di sfruttamento, perché significa appartenere alla casa, alla famiglia e da proteggere come tale.
Ancora oggi guardando un maso ci rendiamo conto che il legno, il bosco, è lo scrigno profumato di resina costruito attorno all’uomo, i pezzi di legna ordinatamente accatastati sotto le scale e i balconi, i fascetti di rami d’abete rosso per accendere le stufe. E questo stretto legame fra legno, vita del bosco e dell’uomo emerge comunque, anche dove il turismo ha sopravanzato qualsiasi altra attività.
Dove le comunità locali hanno imparato a vivere con il bosco, non esiste conflitto fra tagliarlo e curarlo, ma ogni azione si riconduce a quel coltivare che è l’espressione massima dell’uomo giardiniere del mondo. Anche in questo caso il silenzio è la metafora dell’armonia tra la crescita del bosco e il suo utilizzo per la vita della comunità, senza bisogno di usare l’aggettivo sostenibile, perché la selvicoltura lo è sempre per definizione.
Negli ultimi decenni questa silenziosa armonia è stata rotta dal rumore di chi, singoli, associazioni e istituzioni, ha occupato partendo da uno spazio “altro” l’ambiente dei boschi, dei montanari, dei selvicoltori, con la pretesa di dettare regole e priorità pregiudiziali che non tengono conto dei rapporti consolidati fra territori e residenti. Gli stessi organi di gestione delle aree protette tendono a limitare le attività forestali, radicate nelle economie locali, e contemporaneamente sostengono un turismo in prevalenza inconsapevole dei valori culturali espressi localmente dal rapporto uomo-ambiente.
Si attuano politiche forestali contraddittorie, da una parte si vuole trasformare in bosco misto l’abetina pura, ormai residuata in poche migliaia di ettari soprattutto sull’Appennino tosco-romagnolo, dall’altra si incentiva, peraltro giustamente, la conservazione del castagneto da frutto, il bosco più antropizzato, quasi un frutteto. I paesaggi storici, come la fustaia di abete bianco e il castagneto, dovrebbero sempre essere salvaguardati, perché hanno in sé la cultura di una comunità, l’esperienza e la scienza di ennesime generazioni e rappresentano veri e propri monumenti naturali che richiedono adeguate pratiche colturali per essere conservati. Invece l’abetina tende ormai a scomparire, da una parte distrutta nei soggetti giovani dalle dilaganti popolazioni di cervidi, dall’altra impedita da norme che riducono al di sotto del minimo i piccoli tagli a raso necessari per la rinnovazione.
Il Parco nazionale delle Foreste Casentinesi prima ha limitato a 0,3 ettari il taglio a raso, con le piantine di abete che rimangono oppresse dai circostanti alberi alti 30-40 metri, poi nel 2021 ha proibito qualsiasi taglio di rinnovazione, condannando l’abetina a un inevitabile crollo e alla sua scomparsa. Anche in questo caso occorrerebbe accogliere la cultura dei luoghi e non cedere alla percezione turistica “alterata” da un taglio a raso che non rappresenta più di un centesimo di tutta l’abetina.
Le abetine, i castagneti, le peccete e la gran parte dei nostri boschi costituiscono splendidi paesaggi, ambienti naturali importanti, ma anche risorse per la vita delle comunità locali e devono essere conservati e riprodotti adottando adeguate tecniche, senza indulgere troppo alla sfumata differenza tra naturale e artificiale.
Quando Langer definiva la sua proposta di “conversione ecologica” aveva ben presente che una logica repressiva e comunque autoritativa non poteva convincere e motivare a quella rivoluzione interiore che sola poteva portare l’uomo su una strada di mutuo rapporto con l’ambiente: una strada lunga e difficile, che coniuga la tradizione cattolica con l’analisi marxista e le nuove consapevolezze ecologiche. E questa strada poteva condurre alla meta "solo in una dimensione comunitaria percepibile, non astratta, non finta, non puramente cartacea, non idealmente pensata…" [4].
Dunque non un ecologismo importato, non la colonizzazione dell’ambiente da parte di chi non ci vive, ma una consapevolezza nata e cresciuta nelle comunità che vivono il rapporto con un determinato territorio.
Questa considerazione ci riporta al rumore e alle pressioni che interessi esterni al bosco, agli spazi rurali e montani esercitano sulle popolazioni locali, minacciando equilibri economici ma anche esistenziali da cui si dovrebbe trarre ispirazione per nuove politiche ambientali e per un rapporto fraterno con questa terra che ci ospita.
È tempo che il silenzio cali sull’arroganza dei cacciatori di spazio, la risorsa più appetibile fuori dalle zone urbanizzate, e che si possa finalmente dialogare fra territori rurali e montani e aree metropolitane per rivitalizzare quell’interdipendenza che sola può accompagnarci nel rispetto di tutti gli inquilini del Pianeta.
Questa lettera firmata da Claudio Ciardi è arrivata in Redazione come risposta al Commenti e Proposte di Simone Borchi intotolato “Il silenzio del Bosco”.
Caro Simone,
Che dire? In un'epoca dove pare che chi urla più forte, chi offende, chi punge, chi aggredisce, chi ha più soldi, chi fa parte di gruppi più o meno di potere, chi si omologa ad una società sempre più liquida ed uguale a sè stessa ed al suo modello turbocapitalista consumistico dovunque si vada, si arroga il diritto di avere ragione sempre e comunque, ecco uno scritto di un uomo appartenente ad un'altra epoca, scritto con garbo e competenza, ricordando come sono le tradizioni secolari quelle che differenziano veramente gli esseri umani gli uni dagli altri.
Il grande Nelson Mandela era uso dire che quando si finiscono gli argomenti di discussione, si comincia ad urlare ed offendere.
Io concordo con te: i boschi non sono tutti uguali. Certe foreste e certi tipi forestali vanno mantenuti così come sono, compreso le loro secolari tecniche selvicolturali, perché fanno parte del paesaggio, della cultura, della storia delle zone dove sono nati e sono stati coltivati.
Pensare alla Val di Fiemme senza le sue peccete è semplicemente una follia; così com'è folle pensare alle c.d. "foreste sacre dell'Appennino" (Camaldoli, La Verna, Serra San Bruno, Vallombrosa) senza pensare alla coltivazione dell'Abete Bianco e, aggiungo io, della Douglasia storicamente effettuato.
La mescolanza naturale tra Abete Bianco e Faggio va bene in zone come la Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino o simili, ma le maestose abetine storiche vanno “coltivate” come facevano i Monaci Vallombrosani o i Monaci Camaldolesi, magari tagliando a raso al massimo tre ettari per volta e riforestando dopo artificialmente. Proprio per conservare il paesaggio storico delle abetine.
Io penso che vada fatta la stessa cosa per le Pinete di Pino domestico del litorale, senza scorciatoie o pressioni varie, semplicemente spiegando perché si fa. Quando ero giovane ed andavo al mare a Marina di Cecina (LI) andavo a correre e studiare nel Tombolo meridionale (ci ho preparato almeno tre esami di Scienze Forestali) e mi ricordo (circa 40 anni fa) alcune giovani parcelle di Pino domestico impiantate da non più di dieci/quindici anni e opportunamente recintate per impedire che l’uomo potesse nuocere coll’eccessivo calpestio al loro sviluppo iniziale.
Idem vale per i castagneti da frutto. Quelli più belli che ho visto li ho trovati in Irpinia, a cavallo tra le Province di Salerno ed Avellino, mentre contribuivo con lo Studio professionale RDM di Oradini, Morgante e Bertani, l'Università nella persona del Prof. Mario Cantiani e la Comunità Montana del Terminio - Cervialto (AV) ad effettuare i rilievi per la cartografia forestale, l'inventario forestale e il piano di assestamento di qui boschi.
Quei castagneti da frutto, che giacevano su un paio di metri di suolo vulcanico generosamente concesso dalle eruzioni del Vesuvio, erano l'espressione massima del lavoro umano nella natura. Ricordo distintamente la richiesta di informazioni che facemmo ad una famiglia ( padre, madre e figli e figlie in età scalare) intenti a fine estate a preparare il loro castagneto alla raccolta dei marroni di Montella (diventata poi una IGP, se non ricordo male “Castagna di Montella IGP) di come si faceva a raggiungere la cima di una vetta nella quale dovevamo fare i rilievi. Quel castagneto era un giardino curato. La risposta fu di una saggezza infinita: " 'A Muntagna è bbona solo ppè l'aria..." sottolinenando così la fatica che si faceva per guadagnare il pane a quella quota.
Il tutto fu poi condito con la generosità di un invito a fare colazione con loro con pane, pecorino ed un buon bicchiere di vino: la diffidenza era superata e ci fu aperto il cancello della recinzione di filo spinato che contornava il confine del castagneto.
Durante i miei due anni di servizio presso la Comunità Montana della Valtiberina Toscana di Sansepolcro e Pieve Santo Stefano (AR) ho cercato di far capire ai castanicoltori di Caprese Michelangelo quanto fosse importante acquisire una DOP o una IGP. Oggi so che avevo dato loro un buon consiglio, perché il Marrone di Caprese Michelangelo è una DOP, con benefica influenza sulla sua vendita e distribuzione
Io e te abbiamo spesso discusso quando eri in servizio, così come ho discusso con Paolo Mori su certi argomenti come i boschi cedui, sui quali ho un'idea molto più vicina a quella di Fabio Clauser che alla vostra, ma solo perché vorrei che i nostri boschi diventassero in due secoli come quelli francesi, quelli che ho visto in Lorena sui Vosgi, luoghi di nascita di mio padre Mario. Ho un concetto produttivistico della conservazione.
Recentemente sempre su Sherwood on line ho letto un articolo del Professor Federico Selvi dell’Università di Firenze sulle conseguenze di un taglio ceduo nel Bosco di Castelvecchio di San Gimignano (SI), a cinque anni dal taglio, che condivido pienamente: non si può trattare un ceduo invecchiato di 40/50 anni o più come ceduo, anzitutto perché le specie aliene più aggressive (leggi Ailanto e Robinia) subentreranno a mutare pesantemente la composizione floristica del bosco futuro, ma soprattutto perché ormai il bosco ha avviato la sua naturale evoluzione che l’uomo deve guidare per trarre il massimo vantaggio dagli assortimenti forestali che deve ritrarre oggi e, soprattutto, un domani nel futuro.
Ricordo distintamente la bellezza oscura e silenziosa delle Leccete d’alto fusto della Foresta di Pantaleo nella Sardegna Sud Occidentale, tra Cagliari e Carbonia, frutto della conservazione e dell’avviamento ad alto fusto delle leccete e della macchia dopo lo sfruttamento di esse effettuato in epoca Sabauda dopo l’unità d’Italia (1859/1861), che ho visitato durante i rilievi per il primo inventario forestale dei danni “di nuovo tipo”, cioè da “piogge acide” commissionato alla Società Botanica Italiana con il Professor Romano Gellini nel lontano 1987. Se non ci fosse stato il lungimirante intervento conservazionistico delle Autorità Forestali prima e della Regione Autonoma della Sardegna poi, oggi quelle leccete primarie di alto fusto non esisterebbero, esattamente come dopo l’unità d’Italia del 1861.
Analogamente oggi dovremmo chiederci se conviene veramente cippare le nostre foreste per avere centrali che devono bruciare 5 tonnellate di legname per avere lo stesso potere calorico ed energetico di un quintale di carbone (fossile o vegetale che sia) o conviene piuttosto aspettare pazienti l’evoluzione del bosco ceduo, utilizzando nel frattempo la legna che serve per gli usi domestici (caminetti, riscaldamento e cucina) sia delle popolazioni montane, che di quelle rurali.
Mio fratello Massimiliano, appassionato di Mountain Bike recentemente ha fatto il percorso in salita da Bibbiena al Santuario della Verna e si è stupito della maestosità dei faggi della foresta del Santuario. Io gli ho detto che sta diventando un forestale nello spirito da ragioniere ed operatore turistico e commerciale qual'è, ma non posso non riflettere su quanto mi ha fatto notare una persona " non competente" di foreste come lui: la sacralità ed il silenzio di certe formazioni forestali.
Insomma cario Simone, per finirla in breve, apprezzo ed ho apprezzato quanto hai affermato, anche se ti dovrei tirare le orecchie un po': per un rivoluzionario come te, stona un po' citare la Bibbia (Genesi, Giardino dell’Eden e quant’altro).
Io preferisco citare San Bernardo da Chiaravalle:
“Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”
Con immutato affetto e stima
Claudio Ciardi, Dottore Forestale
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