Piantare o lasciare crescere gli alberi per mitigare il cambiamento climatico?

di Andrea Ebone, Paolo Camerano, PierGiorgio Terzuolo
Una delle attuali priorità per il settore forestale, e non solo, è la messa a dimora di nuovi alberi. Per fare ciò si prevedono, e in parte sono già state stanziate, ingenti risorse finanziarie a livello europeo, nazionale e locale. Gli autori propongono una riflessione sulla valutazione dei processi di ricolonizzazione spontanea per comprenderne i tempi, le dinamiche e l’efficacia rispetto ai servizi ecosistemici attesi
Anche i mezzi di comunicazione di tipo generalista danno ampi spazi all’importanza di piantare nuovi alberi come rimedio agli effetti dei cambiamenti climatici. Non è lo scopo di questo contributo entrare nel dibattito, già molto acceso, su quanto queste affermazioni siano sempre vere o meno; comunque sta passando il concetto che piantando un albero a testa si risolva la crisi climatica, e anche la coscienza è a posto, magari con un semplice click da casa. In Italia farebbero 60 milioni di alberi: pare molto ma in Piemonte solo nei boschi ci sono già circa 1 miliardo di alberi, non bastano?
È il momento di parlare di superfici arborate fotosintetizzanti, e non più di numeri astratti, per gli alberi uno non vale uno.
Quindi, al di là delle prese di posizione ideologiche e dall’enfasi emotiva che suscitano argomenti di così forte impatto, questi progetti, se opportunamente indirizzati e gestiti, consentiranno di ottenere e migliorare habitat seminaturali, auspicabilmente ove sono meno rappresentati, con risvolti positivi sulla qualità dell'ambiente, sui servizi ecosistemici e quindi e sugli standard di vita.
Analizzando il processo di trasformazione del territorio avvenuto in Piemonte dal secondo dopoguerra, risulta che in 70 anni la superficie forestale è raddoppiata, raggiungendo la soglia del milione di ettari, analogamente al resto del territorio nazionale. Tutto ciò è avvenuto quasi sempre in modo spontaneo, a seguito dell’abbandono di superfici coltivate o pascolate, attraverso la ricolonizzazione e successione di specie, fasi che spesso non si sono ancora concluse; il territorio è sempre più polarizzato tra infrastrutturazione e wilderness di ritorno.
Per concretizzare questo obiettivo di greening è basilare fornire una risposta a tre domande:
- dove - quali superfici destinare ad accogliere gli impianti;
- cosa - in relazione alle specie da scegliere;
- come - rispetto alle tecniche da adottare per l’impianto e la successiva manutenzione.
Terminologicamente si dovrebbe parlare di ricostituzione di ecosistemi forestali ed ecotonali in aree ove sono poco rappresentate o assenti le zone ad alto valore naturale (c.d. aree HNV): per la realtà piemontese, e padana, le aree agricole e infrastrutturate di pianura e dei distretti vitivinicoli collinari (deserto UNESCO) sono senza dubbio quelle con biodiversità e servizi ecosistemici più compromessi su cui investire prioritariamente.
È importante evitare di lanciare un’offensiva per il tutto e subito, destinata ad un altrettanto rapido oblio.
Ciò anche perché alcuni aspetti tecnici, quali la ridotta disponibilità di materiale vegetale idoneo presso i vivai e la scelta delle tecniche di impianto e manutenzione più adeguate richiedono ancora delle riflessioni e adeguamenti. Inoltre, pare di buon senso distribuire i rischi e l’onere delle cure colturali dei nuovi impianti su più anni, avendo così il tempo di correggere eventuali errori. Relativamente al materiale vivaistico spesso si dimentica che, come per tutti i comparti produttivi, a fronte di un l’aumento repentino della domanda, occorre tempo affinché l’intera filiera possa adeguarsi, a partire dalla raccolta del seme dai popolamenti idonei. Peraltro, non bisogna tralasciare l’aspetto qualitativo che non può prescindere, requisiti essenziali per il successo degli interventi.
Avendo alle spalle ormai 30 anni di esperienza in impianti di ricostituzione di boschi realizzati con i fondi europei e osservando i processi naturali di imboschimento si ha la percezione che, almeno in ambiti planiziali e collinari, per talune specie la ricolonizzazione spontanea di coltivi abbandonati sia più rapida ed efficace rispetto all’impianto artificiale di alberi e arbusti, con un notevole risparmio di risorse ed anche di emissioni in fase di impianto e cure colturali.
Ad esempio, è il caso della farnia che, in presenza di portaseme, colonizza rapidamente seminativi, prati e vigneti abbandonati, in purezza o insieme a latifoglie mesofile (ciliegio, frassini, aceri, olmi) e robinia.
La ricolonizzazione spontanea di ex-coltivi è più rapida, efficace ed economica rispetto ad una piantagione, e comporta meno emissioni.
A fronte della necessità di ricreare nuovi habitat forestali nel modo più efficace e ottimizzando le risorse disponibili ci siamo posti alcune domande: la designazione di aree idonee alla ricolonizzazione di superfici non boscate può essere proposta come metodo ausiliario per raggiungere i succitati obiettivi? E se sì con quali tempi? Le cure colturali, comunque essenziali anche in impianti convenzionali, sarebbero l’unica attività da prevedere per regolare i rapporti di concorrenza tra specie e individui. Per dare una risposta ci pare utile avviare uno studio sui processi di ricolonizzazione da parte della vegetazione forestale spontanea per comprenderne i tempi, le dinamiche e l’efficacia rispetto ai servizi ecosistemici attesi. La finalità è di giungere a delle linee guida che definiscano modalità e opportunità, anche economiche, per il ricorso all’imboschimento naturale, in alternativa agli impianti convenzionali. Un tale approccio potrebbe risultare interessante ad esempio nelle aree protette, scartando le zone con presenza di esotiche invasive, dove per finalità di conservazione della biodiversità sono importanti tutte le fasi evolutive che portano alla formazione di una copertura forestale.
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