Addio al “doppio vincolo” paesaggistico sugli interventi selvicolturali
Approvato l'emendamento che toglie il doppio vincolo ai boschi che ricadono in aree di interesse...
Ciao a tutte e a tutti e benvenuti all'edizione numero 36 di “Pillole forestali dall’Italia”, l’appuntamento quindicinale che vi descrive e commenta 5 tra le principali notizie su foreste e legno in Italia selezionate dalla redazione di Sherwood, sia in forma scritta che come podcast.
Questa rubrica è sponsorizzata da FSC®Italia e PEFC Italia, che ringraziamo per aver scelto di sostenere il nostro lavoro.
Preferisci ascoltare o leggere?
Ecco la versione PODCAST (la trovi anche su tutte le piattaforme come Spreaker e Spotify):
Qui invece le notizie da LEGGERE:
Iniziamo queste Pillole rilanciando un dibattito che si è infiammato negli scorsi giorni, quando è stato pubblicato un articolo scientifico molto stimolante. Si tratta di una “fotografia”, che indica quante superfici sarebbero potenzialmente disponibili nel mondo per piantare alberi attorno alle città. Questo dato è ovviamente interessante per iniziare ad immaginare un percorso mondiale verso città più verdi.
Ma ora che la “fotografia” è stata scattata, l'esercizio più utile da fare sarebbe quello di osservarla, di analizzarla in dettaglio: quanto di quel "potenzialmente disponibili" si può trasformare realisticamente, in breve tempo, in "disponibili e pronte ad ospitare alberi"? Quando costerebbe? Quanto ci vorrebbe a rimboschire tutti quei milioni di ettari? Quali interessi si andrebbero a ledere? Ci sarebbero le piante a disposizione? E quante emissioni si provocherebbero per realizzare tutte queste piantagioni? Il gioco, insomma, varrebbe la candela?
Peccato che uno dei coautori dello studio, il noto Professore e divulgatore Stefano Mancuso, abbia saltato a piè pari tutta questa, forse noiosa, discussione tecnica, arrivando immediatamente ad una risposta, sbandierata sul quotidiano La Repubblica con un messaggio dal tono trionfalistico che si può riassumere così: “Possiamo piantare 100 miliardi di alberi in breve tempo e questo ci aiuterà tantissimo per contrastare la crisi climatica!”
Quando tutto è troppo semplice c'è spesso puzza di bruciato. In effetti no, purtroppo non riusciremo a piantare 100 miliardi di alberi attorno alle città in breve tempo. E anche se ci riuscissimo, l'impatto climatico di questa operazione non sarebbe certo risolutivo.
Paolo Mori, in un articolo pubblicato sul sito di Sherwood, ha spiegato bene il perché la narrativa di Mancuso, nella realtà, sia sostanzialmente irrealizzabile. Pensiamo che sia stato un peccato inquinare, con questa “propaganda verde”, un articolo in realtà molto interessante, che avrebbe potuto aprire (e speriamo aprirà) altre interessanti discussioni.
Discussioni come quella proposta dallo stesso Direttore di Sherwood, in un altro recente articolo, in cui si spiega che la realizzazione di impianti di arboricoltura da legno potrebbe essere più efficace, per gli obiettivi climatici, della creazione dei cosiddetti “boschetti” che oggi vanno per la maggiore.
Insomma, Mori, con questi due articoli, inserisce un po’ di sano pragmatismo in un dibattito che spesso rischia di deragliare verso racconti fiabeschi.
Piantare alberi è e sarà utile, anzi utilissimo, non solo e non tanto per il clima. Ma per farlo davvero è ora di mettere, finalmente, i piedi per terra.
Per approfondire:
Collegandoci direttamente alla notizia precedente, andiamo ad analizzare un caso specifico, quello di Milano, una città che attraverso un progetto ambizioso chiamato “ForestaMi” si è posta l’obiettivo di piantare 3 milioni di alberi entro il 2030 nel contesto urbano e periurbano.
Lo scorso 5 aprile, alla presenza del Sindaco Giuseppe Sala e del noto architetto Stefano Boeri, Presidente del Comitato Scientifico di ForestaMi, si è tenuta una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i progressi del progetto e i prossimi passi per rendere la metropoli lombarda più verde.
Il conteggio degli alberi e degli arbusti presentato durante la conferenza stampa riunisce le piantagioni realizzate da più soggetti: in primis quelle effettuate direttamente da ForestaMi a cui si sommano quelle realizzate dagli enti partner: il Parco Nord Milano, il Parco Agricolo Sud, ERSAF, i vari Comuni della Città metropolitana che hanno sottoscritto protocolli d’intesa con il progetto e, infine, il Comune di Milano.
Ad oggi, il dato aggregato disponibile, aggiornato alla stagione agronomica 2023/2024, ammonta a 611.459 piante messe a dimora nell’intero territorio della Città metropolitana. Alberi e arbusti che, come ha sottolineato l’Architetto Boeri, proprio per effetto della crisi climatica che si mira a contrastare talvolta sono andati incontro a notevole stress e mortalità.
Quello di Milano è un progetto indubbiamente interessante, che vede importanti partnership tra pubblico e privato e ingenti finanziamenti che arrivano anche da grandi aziende, come Prada e Armani. I risultati positivi non mancano, ma anche le difficoltà, ed è impossibile non notare quanto il numero inizialmente auspicato, 3 milioni di alberi (uno per ogni abitante della Città metropolitana), sia ancora molto lontano. Anche al ritmo di 100.000 piante all’anno, che sembra comunque abbastanza difficile da raggiungere e mantenere, si arriverebbe al 2030 con meno della metà di quanto auspicato.
Questo esempio deve farci riflettere su due differenti aspetti.
Il primo è che le città possono davvero fare tanto per trasformarsi e diventare più verdi: Milano oggi è indubbiamente un esempio virtuoso. Al tempo stesso, i grandi obiettivi sbandierati sui media, alla prova della realtà, devono spesso essere ridimensionati a causa di innumerevoli difficoltà di ordine tecnico, non ultima l’elevata mortalità e le difficoltà di gestione.
Allora citiamo nuovamente Paolo Mori, per sottolineare che forse occorrerebbe uscire dalla logica della “rincorsa al grande numero”: 1.000 miliardi, 100 miliardi, 3 milioni...
Il numero di alberi, nella realtà, conta ben poco. Ciò che conta davvero è trovare superfici (risolvendo i potenziali conflitti legati all’uso del suolo) e poi utilizzarle al meglio per realizzare progetti efficaci, con le piante giuste al posto giusto, alle distanze idonee per evitare eccessiva competizione e garantire, in futuro, lo spazio idoneo alle loro chiome. E perché no, anche produrre assortimenti legnosi utili a sostituire materie prime non rinnovabili, attraverso impianti di arboricoltura e non solo parchi e “boschetti”.
Smettiamola allora di correre dietro a quei numeri che tanto piacciono ai giornali e alla TV e acceleriamo, concretamente, nel rendere le nostre città non solo più ricche di alberi, ma maggiormente capaci di generare un insieme di servizi ecosistemici in grado di migliorare davvero l'ambiente e le nostre vite.
Per approfondire:
Come sapete, lo abbiamo ricordato anche in una recente puntata, siamo sempre alla caccia di notizie forestali dal centro-sud: lo sappiamo che nelle foreste di questa parte d’Italia succedono cose molto interessanti, ma il problema è che spesso non vengono divulgate a dovere!
Ma questa volta una bella notizia l’abbiamo intercettata: viene dalla Campania, dove è nato il primo Consorzio forestale della regione.
Si chiama “Consorzio forestale sugherete del Golfo”, ma in realtà il proprio territorio d’azione copre due golfi: il Golfo di Policastro e il Golfo di Velia, nel Cilento. Il Consorzio raccoglie 43 soci: 2 enti pubblici (due comuni) e 41 soggetti privati; l’obiettivo, come dice il nome, è valorizzare in particolare le sugherete della zona. “Il principale obiettivo di questa forma associativa”, si legge nel sito, “è quella di accrescere il valore ecologico e sociale del patrimonio sughericolo locale e promuovere una Gestione Forestale Sostenibile, salvaguardando la biodiversità e al contempo favorendo la creazione di attività produttive di beni e servizi”.
Il Consorzio ha già realizzato diverse attività non solo selvicolturali ma anche culturali: concorsi d’arte e di fotografia, incontri con le scuole e poi un convegno, che si è svolto il 5 aprile, con il quale la compagine associativa si è presentata al mondo tecnico-scientifico forestale rilanciando nel dibattito il ruolo delle sugherete nazionali e la necessità di politiche mirate per valorizzarle.
Da pochi giorni abbiamo chiuso l’ultimo numero di Sherwood, che dai primi di maggio arriverà nelle case degli abbonati. Al suo interno c’è un Dossier dedicato proprio all’associazionismo forestale, che in questi anni sta vivendo un rinnovato interesse. Scoprire questa ed altre nuove iniziative che con entusiasmo tornano ad animare i territori forestali è davvero un bel segnale, che fa molto ben sperare.
Buon lavoro quindi al primo Consorzio forestale della Campania!
Per approfondire:
Torniamo ad occuparci dell’infestazione di bostrico.
Anche se in misura minore rispetto a Trentino, Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia, la tempesta Vaia, prima, e l’infestazione di bostrico poi, hanno colpito anche la Lombardia.
L’estensione dei disseccamenti di peccete a carico del bostrico tipografo, a fine 2022, aveva quasi raggiunto quella colpita dalla tempesta di vento (si parla in Lombardia di 2.400 ettari di bosco schiantato o gravemente danneggiato, per un volume complessivo stimato di 350.000 metri cubi di legname a terra).
Com’era prevedibile, nel 2023 è avvenuto il sorpasso, un forte sorpasso. A certificarlo è un report, uscito da pochi giorni a cura del Servizio Fitosanitario della Regione Lombardia, che mostra come l’infestazione del coleottero scolitide sia cresciuta del 62,4%, arrivando a 3.439 ettari colpiti. Il dato è derivante da un’analisi svolta con tecniche di telerilevamento, dettagliatamente descritte all’interno del documento.
Secondo l’indagine, l’area decisamente più interessata dall’infestazione è quella della Comunità Montana della Val Camonica, con oltre 1.100 ettari colpiti, quasi un terzo del totale, con un incremento tra 2022 e 2023 dell’80% circa. Si tratta comunque, occorre sottolinearlo, dell’1,7% circa della superficie forestale di questa zona.
Tra il 2022 e il 2023, spiega il report, il numero complessivo di focolai è passato da 18.377 a 22.299 segnando un +21%. Lo studio certifica un calo dei focolai caratterizzati dalle estensioni più piccole (i nuovi nuclei), mentre appaiono aumentati in modo significativo quelli appartenenti alle dimensioni medie e grandi. Ciò potrebbe indicare, da un lato, che la diffusione dell’epidemia nell’ultimo anno è avvenuta soprattutto a causa dell’ampiamento di vecchi nuclei; ma anche, dall’altro, che la risoluzione delle immagini Sentinel-2, utilizzate per l’analisi, non è sempre adeguata all’individuazione dei nuovi attacchi.
La primavera è iniziata con molte piogge, un bene per l’abete rosso, ma anche con temperature ben al di sopra della media e dopo un inverno non certo freddissimo. Aspettiamo i dati delle catture a carico della prima generazione del 2024 per comprendere il trend, che speriamo sia in calo in tutte le aree colpite.
Per approfondire:
Concludiamo questa edizione delle Pillole, come sempre, con una curiosità, che in questo caso ci racconta di una collaborazione che unisce ricerca, gestione forestale e conservazione di una specie minacciata.
Nelle ultime settimane, infatti, sono usciti su diverse riviste scientifiche due studi dedicati ad un’unica specie, l’abete bianco, riguardanti in particolare le popolazioni appenniniche di questa importante conifera, che spesso versano in una situazione critica.
Entrambi gli studi vedono protagonisti il team del CNR che si occupa di genetica forestale e un Parco, Il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, che stanno collaborando da cinque anni per studiare l’abete bianco e non solo. Entrambi gli studi, inoltre, a partire da questi due importanti soggetti, si sono aperti a ulteriori collaborazioni, con università e aree protette.
Il primo studio, pubblicato su Dendrochronologia, ha riguardato la diversa capacità adattativa di varie provenienze di abete bianco piantate nel Parco rispetto alla siccità. Lo studio ha messo in luce che le piante che meglio hanno resistito agli stress climatici sono state quelle di provenienza locale e meridionale. Si tratta di un’indicazione molto utile non solo per l’area del Parco, ma più in generale, ad esempio nell’ipotesi di ricorrere alla migrazione assistita per rendere altre popolazioni, comprese quelle alpine, più resilienti alla crisi climatica.
Il secondo studio, pubblicato su Landscape Ecology, si è invece concentrato sulla “salute genetica” dei piccoli popolamenti frammentati di abete bianco in Appennino, dimostrando il ruolo fondamentale dell’ampiezza di questi nuclei per il mantenimento di una diversità genetica sufficiente. Più dell’isolamento dei singoli nuclei di abete, è apparsa fondamentale la loro estensione: da qui un’evidente indicazione gestionale, che consiglia di investire sull’ampliamento dei nuclei presenti per poter conservare la specie.
“Si può gestire solo ciò che si conosce” è stato uno dei commenti, apparso sulla pagina Facebook di uno dei ricercatori coinvolti, che riassume alla perfezione, in pochissime parole, l’importanza fondamentale di questi studi. Il fatto che essi derivino da una collaborazione strutturata tra un ente di ricerca e un Parco è una notizia assai positiva, che dimostra chiaramente quanto sia utile creare un legame solido tra ricerca e gestione, in campo conservazionistico ma non solo.
Per approfondire:
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