Perché la goccia ha infine scavato la roccia? Nuove riflessioni a seguito del dibattito sul “doppio vincolo” paesaggistico
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di Luigi Torreggiani
Lo scorso 21 febbraio su Georgofili.info è uscito un interessante commento, a cura della Professoressa Nicoletta Ferrucci, sulla questione che tanto ha scaldato gli animi nelle ultime settimane: la deroga alla necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree forestali sottoposte a “doppio vincolo” rispetto al Codice dei beni culturali e del paesaggio. In seguito alla decisione del Governo, nella valanga di commenti entusiasti da un lato e di indignazione condita da fake news dall’altro, ho trovato finalmente, in questo articolo, una critica pacata, seria e costruttiva sui cui a mio avviso vale la pensa soffermarsi.
Mi occupo di questo tema dal punto di vista giornalistico da ormai diversi anni, a partire dal “caso” che ha portato la questione all’ordine del giorno, ovvero la vicenda mediatico-giudiziaria legata alla ceduazione di alcune leccete nel complesso del Marganai, in Sardegna. Da osservatore dell’intera vicenda sento quindi la necessità di rispondere all’articolo della Professoressa Ferrucci con ulteriori considerazioni, allo scopo di far proseguire il positivo dibattito da lei innescato.
Nicoletta Ferrucci è Ordinaria di Diritto agrario presso l’Università di Firenze e il suo punto di vista sulla questione è chiaro fin dal titolo del commento: “Gutta cavat lapidem, ovvero questa autorizzazione paesaggistica non s'ha da fare”. La goccia (l’istanza di superare la necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree a “doppio vincolo”) ha infine scavato la roccia (le amministrazioni e la politica) andando oltre la necessità, imprescindibile secondo il parere di Ferrucci, di un regime autorizzatorio differenziato “nell’ottica di una corretta presa d’atto di quel quid pluris che in termini di valori culturali i boschi vincolati ex art. 132 del Codice dei beni culturali e del paesaggio possiedono rispetto agli altri boschi”. Ferrucci si chiede come mai, con così tanta tenacia, è stata scelta una strada diversa da quella prevista dal TUFF - Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali, che prevedeva la formulazione di linee guida specifiche per la gestione di quelle peculiari tipologie di bosco.
In parte la risposta è contenuta nello stesso commento della Professoressa: “La reiterata assenza delle Linee guida ha creato una pesante situazione di impasse”. Utilizzando la stessa metafora, si può dire che la “goccia” non è stata raccolta in un contenitore dentro cui sarebbe stato possibile analizzarla, elaborarla, comprenderla e infine indirizzarla verso la direzione di una soluzione da tutti accettabile.
La “goccia” non è stata raccolta in un contenitore dentro cui sarebbe stato possibile analizzarla, elaborarla, comprenderla e infine indirizzarla verso la direzione di una soluzione da tutti accettabile
È fondamentale chiedersi il perché questo non sia avvenuto. Da osservatore, mi è sembrato di cogliere un’evidente non volontà, da parte soprattutto del Ministero della Cultura, di sedersi attorno ad un tavolo sul quale discutere, a pari livello con gli altri Ministeri coinvolti (Masaf in primis), di una situazione che stava degenerando sui territori, creando numerosi problemi di ordine pratico. Era chiara l’impossibilità, da parte delle Soprintendenze, nel riuscire ad istruire le pratiche; era palese anche l’assenza, all’interno delle stesse, di personale in grado di ragionare nel merito sui progetti selvicolturali. Eppure, a parte alcuni locali e lodevoli tentativi di dialogo, non c’è stata una forte volontà centrale di intraprendere la strada di “Linee guida” che, evidentemente, avrebbero tolto un po’ di potere ai funzionari del Ministero della Cultura ribilanciandolo a favore di quelli del Masaf e soprattutto delle Regioni.
Ma c’è un altro grande tema che, dal mio punto di vista, ha contribuito a far sì che la goccia riuscisse a bucare la roccia. Per rimanere nella metafora, la goccia era ricca di sostanze fortemente abrasive, ovvero di motivazioni solide a suo supporto, mentre la roccia era forse… più di calcare che di granito.
Mi spiego meglio. Le istanze che da più parti chiedevano l’equiparazione della deroga alla necessità di autorizzazione paesaggistica per i “tagli colturali” anche per le aree vincolate dall’articolo 136, portavano argomentazioni molto forti e convincenti (le sostanze abrasive). Da un lato tali motivazioni erano di ordine pratico: la già sottolineata incompetenza selvicolturale delle Sovrintendenze, ma anche inutili mesi di attesa per autorizzazioni che spesso si risolvevano con un silenzio assenso, con un evidente danno, anche economico, a carico delle imprese del settore. Dall’altro lato le riflessioni poste erano di ordine più logico-filosofico. Ad esempio, appariva davvero strano dover chiedere un’autorizzazione paesaggistica per poter realizzare quegli stessi interventi che creano il paesaggio da tutti noi percepito. Non lo si fa con l’agricoltura, perché farlo con la selvicoltura? O ancora, spesso i decreti di vincolo, se letti con attenzione, appaiono estremamente generici o addirittura obsoleti, ancorati a visioni decisamente superate. Un caso su tutti, che mi è capitato di recente tra le mani: la tutela dei rimboschimenti di cedro del Libano dell’Oltrepò pavese. Nei decenni passati essi potevano rappresentare un elemento di pregio paesaggistico, ma oggi non sarebbe più auspicabile, da tanti punti di vista (anche paesaggistico!), andare verso una loro scomparsa e favorire l’insediamento delle latifoglie autoctone? Da qui una terza, grande, domanda: fino a quanto è lecito “bloccare” in una dimensione “museale” ambienti per loro stessa natura dinamici, che si modificano in base al clima (siamo nel mezzo di una crisi climatica!) e alle dinamiche socioeconomiche?
Spesso i decreti di vincolo, se letti con attenzione, appaiono estremamente generici o addirittura obsoleti, ancorati a visioni decisamente superate
La non volontà di sedersi attorno ad un tavolo e tutte queste altre considerazioni, indubbiamente solide o quantomeno molto convincenti, hanno fatto breccia in una politica “di calcare” e non “di granito”, che preso atto delle difficoltà amministrative ha scelto, anche a seguito di forti pressioni dalla propria base elettorale, la strada più rapida. Lo ha fatto, come ha sottolineato la Professoressa Ferrucci, attraverso una norma forse non adatta a modificare il complesso Codice dei beni culturali e del paesaggio e tramite una motivazione (“rilanciare la filiera nazionale del legno”) che anche dal mio punto di vista è parsa da subito come assai forzata (e che ha dato vita alle forti polemiche a cui abbiamo assistito).
Secondo la Professoressa Ferrucci “sarebbe stato preferibile optare per la scelta di plasmare strumenti idonei a favorire una gestione più oculata dei boschi vincolati ex lege, che dai dati tecnici non risultano certo deficitari dal punto di vista quantitativo, rispettando, attraverso il mantenimento di un regime differenziato, la valenza culturale dei boschi vincolati in via provvedimentale”. Sono d’accordo, ma evidentemente le condizioni politiche e i delicati equilibri tra i diversi Ministeri e le Regioni non erano tali da proseguire sulla strada delle auspicate “Linee guida” già previste dal TUFF. Dove la fragile macchina amministrativa ha fallito, la politica ha mostrato (nel suo luogo principe, il Parlamento) i suoi muscoli.
Dove la fragile macchina amministrativa ha fallito, la politica ha mostrato (nel suo luogo principe, il Parlamento) i suoi muscoli
La domanda finale che c’è da porsi oggi è quindi un’altra: sarebbe ancora possibile, almeno in parte, andare nella direzione auspicata dalla Professoressa Ferrucci? Evidentemente non con lo strumento delle Linee guida, ma con un altro altrettanto importante, citato dalla Circolare che il Masaf ha recentemente pubblicato per spiegare la modifica normativa. In questa circolare, a firma di Alessandra Stefani, Direttrice della Direzione generale economia montana e foreste del Masaf, si spiega che: “Resta impregiudicata la possibilità, per i Piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi di collaborazione stipulati tra le Regioni e i competenti organi territoriali del Ministero della cultura (le Sovrintendenze - n.d.r.), di concordare specifici interventi previsti ed autorizzati da eseguirsi nei boschi tutelati dall’Articolo 136 del Codice, come previsto dall’Articolo 7 comma 12 del TUFF”.
All’interno dei Piani paesaggistici o di specifici accordi è ancora possibile individuare buone pratiche gestionali per i boschi soggetti a “doppio vincolo paesaggistico”. Non solo, attraverso questo strumento è auspicabile che i decreti di vincolo siano analizzati nel concreto, alla luce delle attuali sensibilità paesaggistico-ambientali, per affrontare il tema caso per caso ed eventualmente anche per individuare nuove aree meritevoli di una particolare gestione forestale in senso paesaggistico.
Tra la goccia e la roccia, insomma, è ancora possibile posizionarsi, per affrontare il tema con buon senso e senza estremizzazioni da entrambi i lati. Lo spazio tecnico può essere quello dei Piani paesaggistici regionali. Quello politico è invece tutto da ricostruire: il nostro settore, le sue rappresentanze e il mondo scientifico avranno la volontà di affrontare il tema, come auspica la Professoressa Ferretti, o preferiranno al contrario accontentarsi di quel solco creato nella roccia?
di Nicoletta Ferrucci
Un profluvio di commenti entusiastici in chiave liberatoria ha accolto l’equiparazione, sancita dal legislatore, dei boschi che oltre alla valenza paesaggistica presentano cospicui caratteri di bellezza naturale, memoria storica, valenza culturale, protetti da vincolo paesaggistico provvedimentale, ai boschi che sono privi di tali connotati, i quali sono automaticamente assoggettati a vincolo paesaggistico per legge esclusivamente in virtù della relativa essenza morfologica.
La dicotomia valoriale delle due tipologie di bosco aveva innescato nella normativa paesaggistica la consolidata duplicazione di regimi autorizzatori, l’uno riservato ai boschi vincolati ex lege, mirato a bilanciare la tutela della relativa valenza di elementi identitari di un paesaggio, con le esigenze legate all’esercizio dell’attività imprenditoriale, attraverso l’esenzione dall’obbligo della preventiva autorizzazione paesaggistica di una gamma di attività, tassativamente individuata dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ed ampliata dagli interventi legislativi successivi che di quel testo normativo hanno integrato il dettato originario; l’altro, più restrittivo, formulato ad hoc per i boschi vincolati da provvedimento amministrativo, che restringe il novero di attività liberalizzate in modo da assicurare adeguata tutela agli spiccati valori culturali espressi da questa peculiare tipologia di boschi, nel delicato equilibrio con la necessità di garantirne una adeguata gestione. In sintonia con questa scelta di applicare un regime autorizzatorio differenziato per le due categorie di boschi , il Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali con riferimento ai boschi vincolati per legge ha allargato ulteriormente le maglie delle attività esenti dalla preventiva autorizzazione paesaggistica liberalizzando una nuova gamma di interventi selvicolturali e forestali; mentre relativamente ai boschi vincolati ex actu, ha rinunciato a disegnare ulteriori contorni del relativo regime autorizzatorio, e ha demandato l’individuazione degli interventi esenti dall’obbligo della preventiva autorizzazione paesaggistica ad una codecisione Stato - Regioni da formalizzare alternativamente nel piano paesaggistico, oppure in specifici accordi di collaborazione stipulati tra le Regioni e i competenti organi territoriali del Ministero della Cultura, nel rispetto di Linee Guida nazionali redatte congiuntamente dai Ministeri referenti delle diverse funzioni del bosco, agricole, ambientali e culturali.
La reiterata assenza delle Linee guida ha creato una pesante situazione di impasse che indubbiamente invocava un rapido ed efficace superamento, mantenendo peraltro la rotta nella direzione di un regime autorizzatorio differenziato reso, a mio parere, imprescindibile nell’ottica di una corretta presa d’atto di quel quid pluris che in termini di valori culturali i boschi vincolati ex art. 132 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, possiedono rispetto agli altri boschi. Le cose sono andate diversamente, perché sulla situazione di stallo si è innestata la ferrea determinazione ad equiparare le due tipologie di bosco, estendendo ai boschi vincolati in via provvedimentale l’intero pacchetto di esenzioni dalla preventiva autorizzazione paesaggistica originariamente applicabili ai soli boschi vincolati per legge, senza neppure prevedere, come viceversa in modo oculato aveva fatto il TUFF, la formulazione di linee guida alle quali affidare, pur nell’ambito della liberalizzazione, correttivi mirati a garantire la tutela della valenza culturale di quelle peculiari tipologie di bosco.
Colpisce la tenacia con la quale questo obiettivo è stato perseguito, dapprima attraverso iniziative adottate in questa direzione dalla Regione Toscana, stigmatizzate dal Consiglio di Stato e censurate sotto il profilo della legittimità costituzionale dalla stessa Corte Costituzionale in quanto lesive della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio; successivamente, bypassando l’ostacolo della incompetenza delle leggi regionali a legiferare in tema di disciplina autorizzatoria, la così intensamente invocata e bramata assimilazione dei boschi vincolati ex actu ai boschi vincolati ex lege è stata introdotta da una norma nazionale, per inciso non corredata di prospetto riepilogativo né di relazione tecnica, l’art. 5 bis, Interventi urgenti a sostegno di attività economiche strategiche per il made in Italy, della legge 9 ottobre 2023, n. 136 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 104, recante disposizioni urgenti a tutela degli utenti, in materia di attività economiche e finanziarie e investimenti strategici, in emendamento al testo del decreto legge 104/2023.
Singolare la scelta di intervenire in una materia così delicata, la modifica del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, con una norma che si colloca nel multiforme caleidoscopio di disposizioni che caratterizzano la legge 136/2023, e vanno dal caro voli alla tassazione degli extraprofitti delle banche, all’aumento delle licenze dei taxi, alle azioni di contrasto al granchio blu, al bonus del 110% per l'edilizia, alla caccia nelle zone umide.
Altrettando singolare la motivazione, esplicitata nel testo della disposizione, sottesa alla equiparazione tranchant, cioè quella di “incentivare e sviluppare le potenzialità della filiera nazionale foresta-legno e di favorire il riposizionamento strategico delle aziende italiane rispetto alla concorrenza dei mercati esteri, anche potenziando le possibilità di approvvigionamento della materia prima”. Se questa è la finalità perseguita dal legislatore, sarebbe stata, a mio avviso, preferibile optare per la scelta di plasmare strumenti idonei a favorire una gestione più oculata dei boschi vincolati ex lege, che dai dati tecnici non risultano certo deficitari dal punto di vista quantitativo, rispettando, attraverso il mantenimento di un regime differenziato, la valenza culturale dei boschi vincolati in via provvedimentale.
La pubblicazione di questo articolo fa parte di un’iniziativa condivisa con la rivista "Georgofili INFO" per agevolare un confronto pacato e costruttivo sul tema del doppio vincolo paesaggistico.
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