Mille miliardi di alberi: un paravento verde che fa comodo
di Paolo Mori
Il G20 di Roma si è concluso con alcuni importanti impegni. Tra questi, quello che per costo è potenzialmente il più importante è piantare 1.000 miliardi di alberi entro il 2030. STEFANO MANCUSO, botanico, ricercatore, autore di libri, direttore del Laboratorio di Neurobiologia Vegetale da lui fondato, nonché star della divulgazione generalista, ne ha gioito, anche perché da alcuni mesi va predicando tale soluzione. A chi non ne sa nulla di piantagione di alberi, come i politici che hanno scelto di inserire tale obiettivo nella loro dichiarazione finale, può sembrare solo un obiettivo ambizioso, non un obiettivo irraggiungibile. I politici avrebbero potuto essere avvertiti dai ricercatori che precedono e affiancano le trattative di eventi come il G20, ma non è successo. Nessuno, tecnico o ricercatore, ha fatto presente che la proposta di piantare 1.000 miliardi di alberi entro il 2030 equivale a stabilire che, per quanto difficile, è possibile andare dalla Terra alla Luna in bicicletta.
L’affermazione può sembrare drastica, ma facciamo qualche valutazione grossolana, di quelle che forse non sono state fatte prima di stabilire un obiettivo irraggiungibile come questo. Partiamo dalla superficie di terreno necessaria, quella che molti nel settore hanno subito evidenziato come il principale problema da superare. Se vogliamo effettivamente ottenere il risultato atteso dai 1.000 miliardi di alberi dobbiamo lasciare spazio alle piante per svilupparsi al meglio delle loro potenzialità. In genere, basta osservare qualche pianta cresciuta senza forte competizione con le altre e si può notare che l’area di cui ha bisogno la chioma per svilupparsi è di decine se non centinaia di metri quadrati. Volendo “risparmiare” molto terreno e piantandole lasciando solo 10 metri quadrati ciascuna (1.000 piante per ettaro) risulta comunque che si dovrà trovare terreno fertile per una superficie pari a 32 volte l’Italia (poco meno della superficie del Canada, poco più di quella della Cina). Una superficie enorme, che attualmente dovrebbe essere non solo fertile, ma anche libera da colture agrarie, pascolo, foreste, infrastrutture viarie, aree urbane e industriali. Insomma in molte parti del Mondo stiamo deforestando per far posto alle colture agrarie, ma c’è una superficie fertile e grande quasi come il Canada che stiamo ignorando e che potremmo utilizzare per piantare alberi. Se la superficie non fosse sufficientemente fertile le piante non crescerebbero adeguatamente da fissare la quantità di CO2 necessaria. C’è qualcosa che non torna in questo ragionamento? Come mai nessuno ha fatto questo tipo di valutazione? Siamo solo pessimisti? Speriamo di esserlo!
Naturalmente piantare tutti questi alberi comporterà la perdita di molte aree aperte non coltivate, con la conseguente perdita della biodiversità collegata alle aree aperte, ma siccome ragioniamo a compartimenti stagni, non ci abbiamo pensato. Oppure contrastare la crisi climatica con gli alberi è più importante della conservazione della biodiversità delle aree aperte. Si sarà pensato che comunque non la perderemo tutta, la ridurremo solo drasticamente.
Secondo l’idea proposta, e forse sottovalutata dai tecnici e dagli scienziati dei politici, i tempi del contrasto alla crisi climatica sono molto stretti, quindi avremo 9 anni per piantare i 1.000 miliardi di alberi. Questo significa che ogni settimana, per 468 settimane consecutive a partire dal gennaio 2022, dovremo essere capaci di piantare 2,14 miliardi alberi. In pratica circa 305 milioni di alberi ogni giorno 7 giorni su sette. Il problema poi non sarà solo piantare gli alberi, ma, prima ancora, sarà quello di raccogliere i semi e produrne in vivaio più di 111 miliardi di alberi ogni anno. Giusto per capire l’entità del problema in Italia avremmo il compito di piantare “solo” 2 miliardi di alberi, cioè più di 222 milioni ogni anno, con una produzione vivaistica forestale che secondo il RaF Italia è inferiore ai 5 milioni di piante per anno (in pratica adesso produciamo meno del 3% del fabbisogno). Come faremo a colmare il 97% mancante e a partire da Gennaio? Se, come è certo, non ce la faremo, significa che per il tempo restante (minimo 7 anni) dovremo produrne e piantare ancora di più ogni anno. Probabilmente non potremo neppure importare le piantine poiché anche gli altri stati saranno completamente presi dalla produzione interna; e poi come si metterebbe con la conservazione delle specie autoctone e delle provenienze locali?
Resta in fine la questione del costo di un’operazione del genere, molto difficile da stimare. Quello che si può affermare è che in Italia, come in Europa, in USA, Canada e Australia il costo medio di raccolta di semi, produzione vivaistica, trasporto, preparazione del terreno, apertura buche, irrigazioni di soccorso, contenimento della competizione con le erbe e difesa dai mammiferi fitofagi, domestici e selvatici, risarcimento delle fallanze si aggira molto ottimisticamente intorno ai 10 $. In casi più comuni si arriva tra 15 e 25 $. Per i cloni di pioppo, piante ad alta capacità di fissazione della CO2 e quindi particolarmente interessanti per contrastare a crisi climatica, si superano i 30$ a pianta. Se i 1.000 miliardi di alberi venissero piantati in questi paesi ricchi, anche considerando i costi più bassi tra quelli elencati sarebbero necessari 10.000 miliardi di dollari, una cifra enorme, pari a circa il 60% del PIL degli USA. Naturalmente le piante saranno messe a dimora anche in Asia, Africa e Sud America, dove il costo potrebbe essere compreso tra 1 e 2 $ ad albero. Se le piante venissero tutte messe a dimora in quei continenti il costo si aggirerebbe tra i 1.000 e i 2.000 miliardi.
E’ chiaro che adesso non è possibile fare una stima sufficientemente affidabile, ma che il costo reale dipenderà dal luogo in cui saranno messi a dimora gli alberi. C’è però da aspettarsi che tutta questa operazione richiederà agli stati più ricchi di investire ogni anno alcune centinaia di miliardi di dollari (non milioni, miliardi). Soldi che dovranno essere reperiti tagliando servizi alle imprese e/o ai cittadini oppure aumentando tasse e imposte.
Certo se fosse per la salvezza del Pianeta e delle prossime generazioni forse ci si potrebbe riuscire. Ma siamo sicuri che troveremo tutto il terreno fertile di cui avremo bisogno, che i proprietari di quel terreno ce lo concederanno senza fare resistenza, che riusciremo a produrre l’enorme numero di piantine necessarie, che saremo in grado di metterle a dimora e gestirle, tutte quante, in modo che siano in grado di fissare la quantità di CO2 atmosferica di cui abbiamo bisogno?
Senza dubbio per il nostro settore si tratta di una grande opportunità per dare un contributo importante. Dobbiamo impegnarci per questo, mettendo a disposizione il meglio delle nostre conoscenze scientifiche e tecniche, ma allo stesso tempo dobbiamo stare molto attenti a non prestare il fianco ad un enorme greenwhashing planetario. Il rischio di queste invenzioni estemporanee, facili da trasmettere a chi non ne sa nulla e paravento comodi per chi vuol continuare ad emettere, non è solo quello di non avere le gambe per stare in piedi, è anche quello di distrarre l’attenzione e le risorse di tutti, facendoci ritardare ulteriormente decisioni di drastica riduzione del più importante fattore che ha determinato la crisi climatica: l’emissione di carbonio di origine fossile.
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