Addio al “doppio vincolo” paesaggistico sugli interventi selvicolturali
Approvato l'emendamento che toglie il doppio vincolo ai boschi che ricadono in aree di interesse...
Nei giorni successivi all'evento meteorologico estremo che ha colpito la Romagna e causato devastanti alluvioni oltre a centinaia di frane e dissesti, sono state diverse le prese di posizione "a caldo", anche da parte di esperti (o presunti tali), che spesso sono risultate imprecise quando non palesemente errate e completamente fuori luogo.
Qualcuno ha parlato di ipotetiche "foreste vergini", altri hanno puntato il dito sulla "pulizia dei fiumi", altri ancora sull'abbandono dei territori rurali a monte delle aree colpite dall'alluvione.
Per fare chiarezza abbiamo posto ad un ricercatore forestale esperto di idrologia e dissesti in ambiente montano e boschivo, il Prof. Filippo Giadrossich dell'Università degli Studi di Sassari, alcune domande sui temi che stanno generando più confusione nei giornali e in TV.
In Italia ovviamente le "foreste vergini" invocate da qualcuno semplicemente non esistono. Ma lasciando da parte questa evidente semplificazione, la forma di governo dei boschi può incidere direttamente sui dissesti? Spesso al governo a ceduo viene associata una minore capacità di trattenuta dei versanti: è davvero così?
In realtà sia le foreste governate a ceduo che quelle governate a fustaia contribuiscono a mitigare l'erosione e le frane superficiali, senza differenze significative nella capacità di ritenzione idrica del suolo sulla base del tipo di governo. Questo vale anche per l’effetto di trattenuta dell’acqua da parte delle chiome, che viene perso dopo pochi millimetri di pioggia, indipendentemente dalla forma di governo. Pertanto, contrapporre fustaie, soprassuoli transitori, cedui o ipotetiche "foreste vergini" non ha molto senso in questo contesto. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola "ceduo = dissesto". La capacità idrica nei suoli forestali è generalmente buona quale che sia la forma di gestione selvicolturale applicata, data dall'elevata porosità e capacità di drenaggio.
"L’effetto di trattenuta dell’acqua da parte delle chiome viene perso dopo pochi millimetri di pioggia, indipendentemente dalla forma di governo"
Alcuni commentatori hanno imputato un ruolo chiave alla siccità, persistente nei mesi precedenti al disastro, che sarebbe alla base di una minore capacità di trattenuta idrica dei suoli. Si tratta di un'ipotesi plausibile?
A mio avviso la siccità di questo inverno può aver influito solo in parte sugli allagamenti della Romagna. In condizioni di suolo molto secco e piogge intense si può determinare inizialmente un deficit di infiltrazione, con rapida saturazione dei primi centimetri e conseguente deflusso superficiale. Ma nei bacini montani, in bosco, è comunque molto raro osservare l'acqua che scorre in superficie, anche dopo lunghi periodi di siccità.
Numerose frane, si parla di diverse centinaia, sono scese nell'Appennino Tosco-Romagnolo. Quali soni i fattori che più incidono su questi fenomeni?
Fattori che contribuiscono alla suscettibilità del suolo a franare sono la pendenza, la tessitura, lo spessore dei suoli, la litologia. Altro fattore da considerare è il contenuto idrico del suolo prima dell’evento di pioggia. Dalle esperienze sperimentali e dalle osservazioni in campo di eventi naturali, l’innesco di frane si verifica quando piogge intense si abbattono su suoli che, a causa di eventi precedenti, hanno già un contenuto d'acqua significativo. Questo è ciò che è successo in Romagna, dove si sono verificati due eventi di pioggia estrema a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Ma un ulteriore fattore determinante sono gli interventi infrastrutturali di origine antropica, come, ad esempio, i "tagli di versante" costituiti da strade e i tombini, che concentrano le acque da un’ampia superficie in un solo punto, creando un rapido e localizzato accumulo con saturazione del suolo. In tali situazioni, anche terreni in pendenza con densa copertura delle chiome possono essere soggetti a franare.
"L’innesco di frane si verifica quando piogge intense si abbattono su suoli che, a causa di eventi precedenti, hanno già un contenuto d'acqua significativo"
Sulla manutenzione degli alvei si è sentito e si è letto davvero di tutto: alcuni hanno scritto che si taglia troppo, altri, al contrario, che non si fa più manutenzione. Qual'è la sua idea a riguardo?
La questione della manutenzione degli alvei riguarda principalmente la scelta di dove spostare il rischio, o il vantaggio. Infatti, la presenza di vegetazione erbacea, arbustiva e arborea sulle sponde, aumenta la scabrezza dell’alveo. Ciò comporta il rallentamento del deflusso e l’aumento dei livelli idrici, ma espone anche al rischio di trasporto di legname che può costituire una barriera in presenza di elementi strutturali. La gestione della vegetazione dipende quindi dalla scelta di usufruire dell’effetto positivo della vegetazione nella dinamica dei deflussi, con ripercussioni positive a valle in termini di riduzione dei picchi di piena, o dalla valutazione del rischio per le infrastrutture. La situazione è diversa nei tratti più a valle, dove i fiumi sono regolarizzati e progettati per lavorare in condizioni predeterminate di sezione idraulica e di scabrezza dell’alveo. Le opere di espansione del fiume possono controllare le portate per le quali gli argini sono stati progettati considerando specifici tempi di ritorno.
"La questione della manutenzione degli alvei riguarda principalmente la scelta di dove spostare il rischio, o il vantaggio"
In definitiva, come spesso capita volendo individuare a tutti i costi e in fretta un "colpevole", si attribuirsce ad un singolo fattore una concatenazione di eventi in realtà molto complessi, ma questo è profondamente sbagliato, è così?
Certamente, è sbagliato attribuire la responsabilità del rischio idrogeologico esclusivamente a un singolo fattore, come la gestione forestale ceduo/fustaia o gli eventi estremi che si verificano in seguito ai cambiamenti climatici. Le conseguenze di tali eventi sono sempre il risultato di una combinazione complessa di molteplici fattori. In primo piano rimangono le attività antropiche, il consumo di suolo e la sua impermeabilizzazione temporanea o permanente, l'urbanizzazione mal pianificata, la modifica dei corsi d’acqua, l’occupazione delle naturali zone di espansione del fiume. Questi fattori possono alterare l'equilibrio idrogeologico naturale, aumentando la vulnerabilità del territorio agli eventi estremi.
Filippo Giadrossich, Dottore forestale, Dottorato in ingegneria agro-forestale a Firenze, insegna "Sistemazioni idraulico forestali" e "Valutazione del rischio idrogeologico" nel Corso di laurea in Scienze Forestali e Ambientali a Nuoro.
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